Recensioni / Aristocratici sì ma ancora validi

La rivista «Diario» di Bellocchio e Berardinelli fu un modo, certo impopolare, di reagire alla fiacca gora degli anni Ottanta, una risposta – una delle poche risposte possibili, ma anche una delle pochissime che vennero tentate in ambito intellettuale – alla mutazione che dilagava, alle teorie sulla fine della storia, alla realtà della pacificazione nazionale nel benessere dopo un decennio di conflitti anche estremi, di tensione e di sangue. Fu anche un modo di riaffermare, confidando nell'intelligenza di pochi lettori che si sarebbero selezionati da sé, nessuno dei quali attirato da una qualche “pubblicità", il valore della critica dell'esistente non da posizioni ideologiche (nel ripudio del discorso di tutta la sinistra, anche e forse in particolare di quella che si proclamava nuova e che di nuovo aveva ben poco) ma dall'osservazione del cambiamento in atto, nel minimo della vita quotidiana più ancora che nel massimo delle grandi menzogne del tempo.
Dei “geni tutelari" furono pochi quelli recenti, la Weil e Orwell, ma forse avrebbero potuto essercene altri, perfino tra i viventi. Tra i nomi più citati nell'indice appaiono quelli di Brecht, Benjamin, Kraus, Borges, Bobbio, Calvino, Fortini, Pasolini, Barthes, Sofri, ma non è che il rapporto con questi "vicini" fosse più facile di quello con i lontani con i quali si polemizzava o dai quali si prendevano le massime distanze (tra i viventi, Eco e Calasso, per esempio, non meno di Andreotti e dell'allora trionfante Craxi). Dimostrazione di straordinaria coerenza e intelligenza, il lavoro di questi due appartati "provinciali" delle nostre lettere intuì e scavò più in profondità dei soloni e dei divi del tempo, e anche di quello successivo.
Durò solo dieci numeri, «Diario», e fu un peccato, ma forse quel tipo di tensione morale e intellettuale non poteva reggere più a lungo, o forse il suo esito non poteva essere che quello di un abbandono del campo, vuoi per disperazione, vuoi perché le cose più importanti da dire erano state dette, e i due direttori e soli autori della rivista non avevano alcuna velleità presenzialista. Il risultato è comunque imponente: una piccola cosa dal punto di vista editoriale continua e continuerà a stupire per la sua capacità di mettere in discussione il presente di allora e il futuro che già vi si esprimeva, ma che pochi sapevano vedere. Diceva Cesare Cases che dalla crisi dei «Quaderni piacentini» erano nate due riviste tra loro diversissime, l'aristocratica e solitaria «Diario» e l'affollata e democratica «Linea d'ombra», alla quale peraltro non mancarono la collaborazione e i consigli dei "pochi" di «Diario». La differenza stava forse nell'impulso ancora "pedagogico" della seconda, nella volontà di capire il nuovo e individuarne, calvinianamente, quel che valesse la pena di difenderne, secondo le convinzioni di una sorta di pessimismo (o nichilismo) però attivo e propositivo. Tra i nomi dell'indice di «Diario» quelli di Camus o di Capitini, per esempio, non compaiono mai, e quello di don Milani una volta sola.