Recensioni / "Diario" del torto

Nel corso del 1984 Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli, di fronte all’esaurirsi dell'esperienza dei «Quaderni piacentini» durata oltre un ventennio – dal lontano 1962 – e conclusasi definitivamente nell'85, si interrogarono sul modo di continuare il loro lavoro culturale, la loro partecipazione ideologica e politica al dibattito sulla crisi italiana, e alla fine decisero di dar vita a una nuova pubblicazione, che piuttosto che una rivista come le altre, che pur fiorirono in gran numero durante il Novecento, doveva proporsi come il loro contrario, letteralmente un'«anti rivista».
Proviamo a capire che cosa della tradizione delle riviste i due scrittori non volevano far loro: i giornali, dai fogli fiorentini culminati alla fine del primo decennio nella «Voce» di Prezzolini e compagni, erano innanzitutto l'espressione di un gruppo e del lavoro collettivo che esso sapeva esprimere, avevano cioè un progetto condiviso dai collaboratori, una "linea" lungo la quale tutti in fila si sarebbero mossi, certo con accenti personali e diversi ma anche con sostanziale unità di intenti, e, tanto per cominciare, proclamavano il loro credo in una specie di manifesto, che ne diventava l'editoriale d'apertura.
Questo rito scrittorio è a tal punto condiviso per mezzo secolo e oltre che qualche anno fa Giuseppe Lupo e Giuseppe Langella hanno potuto raccogliere in una singolare antologia quasi 6oo pagine di «programmi delle riviste del Novecento» sotto il titolo «Il secolo dei manifesti» (Aragno, 2006), dove tra gli altri c'è anche quello brevissimo e dimesso dal numero zero dei «Quaderni piacentini»: «Vogliamo dei lettori ma soprattutto dei collaboratori. Vogliamo che questo sia un foglio di battaglia».
 «Diario», invece, inizia nudo, senza proclami e senza appelli, mettendo insieme testi soltanto dei due direttori autori – sotto il titolo infatti, c'è scritto semplicemente «Rivista di Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli» – e poi ogni volta uno scritto, sottratto alla dimenticanza, di qualche autore più o meno classico; il primo è Kierkegaard, e poi Leopardi, Thoreau, Baudelaire eccetera.
L'«anti rivista» è deliberatamente inattuale, persino un po' retrò, è composta a piombo, stampata in tipografia, distribuita di persona, non ha programmi, non fa proclami, ha due autori che scrivono, riflettendo sul presente o commentando quel che si dice o si scrive; è davvero un "diario", il loro diario, e, quindi, non ha periodicità, anche se si annuncia trimestrale, ha una piccola tiratura – 1.000, 1.500 copie –, non ha collaboratori, e raccoglie persino tra gli amici che avevano sino ad allora condiviso la precedente avventura ben pochi entusiasmi, anzi «una quasi totale incomprensione».
In nove anni (1985 1993) uscirono 10 numeri, in tutto poco più di 8oo pagine, che a leggerle oggi, dopo averle lette allora e poi rilette nei libri che i due autori intanto hanno pubblicato, sorprendono ancora, perché non hanno nessuna tesi precostituita, nessun disegno interpretativo, anzi partono da posizioni dichiaratamente minoritarie che tali pretendono di restare, si schierano provocatoriamente «dalla parte del torto», e insistono nel giustapporre i propri due punti di vista, per molti aspetti assai diversi, niente affatto complementari, i quali, tuttavia, senza che i due autori appartengano alla stessa generazione o abbiano condiviso formazione o città, si arricchiscono specchiandosi l'uno nell'altro, non nel senso della coerenza ideologica, di un credo comune, ma in quell'altro, imprevedibile e sorprendente, della complicità e dell'amicizia, perché nient'altro si attendono l'uno dall'altro se non la gioia, il piacere dello stare insieme, vicini.
Certo gli autori hanno ragione di sottolineare che con anticipo avevano preso atto «del cambiamento dello scenario sociale e politico», non soltanto lamentando il «disimpegno» universale, ma piuttosto prendendo a bersaglio di una polemica ricca di toni ironici e sfottenti i protagonisti di una cultura di sinistra resa fragile dalla «falsa coscienza» e patetica dall’affermazione di una propria inequivocabile «diversità» che le avrebbe garantito un'indistruttibile egemonia.
I due autori sbuffano inquieti contro il monopolio marxista della critica della società, ridicolizzando le pretese di saperla lunga e di non avere dubbi, e allargano il canone con la riproposta provocatoria di spiriti liberi ed eccentrici, indifferenti a ogni ortodossia, a ogni ideologia, a qualsiasi sistematizzazione del sapere.
Bellocchio e Berardineiii sentivano il bisogno di maggiore libertà e se la presero senza tante precauzioni o giustificazioni, spregiudicati e ironici, in ogni caso lucidi e intelligenti, scrivendo «certe cose nel momento in cui le osservavamo e pensavamo per la prima volta», fino a quando mentre iniziava la seconda Repubblica la loro vena si disseccò e loro non furono più «capaci di continuare»