Recensioni / Ciò che distingue l'uomo da una zecca

Con l’incontro tra un uomo e una zecca si apre, nel 1933, uno dei testi più significativi del pensiero europeo novecentesco. Jakob von Uexküll, aristocratico estone, direttore dell’Istituto per la ricerca ambientale di Amburgo e figura centrale per la biologia moderna, comincia così, con una breve incursione sulle rive dell’Elba, la sua opera più emblematica, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, riproposta da Quodlibet a cura e con un’ottima traduzione, finalmente svecchiata e immediatamente fruibile per un lettore contemporaneo,
di Marco Mazzeo.
L’incrociarsi fortuito di un uomo e un insetto, situazione apparentemente poco significativa data la sua frequenza nelle campagne estive, è il perno su cui di fatto Uexküll sembra far ruotare il paradigma di un nuovo ordine epistemologico delle scienze naturali. Scritto quando Konrad Lorenz stava ancora muovendo i suoi primi passi negli studi sul comportamento delle oche, Ambienti animali e ambienti umani segna una cesura epocale con tutta una tradizione scientifico-antropocentrica che fino ad allora aveva impostato i propri studi su un evidente adeguamento delmondo animale a parametri comportamentali e cognitivi del tutto umani.
Per la fisiologia di primo Novecento, cani, gatti, lucertole e zecche non sembrano essere altro che semplici oggetti viventi, risultato di un assemblaggio, più o meno complesso, di «utensili» e «protesi percettive» (a seconda che ne si consideri ora l’aspetto semplicemente meccanico, ora quello di sintesi dei dati sensoriali), inseriti in un mondo unico e uguale
per tutti, organizzato secondo una scala gerarchica di varia complessità, al vertice della quale si colloca, naturalmente, l’uomo.
Per Uexküll le cose, invece, non sembrano stare affatto in questi termini. L’incontro di un uomo con una zecca non rappresenta certo l’entrata in collisione tra un soggetto-uomo e un oggetto-animale (o un animale-macchina, se vogliamo), matra due soggetti, due unità operative ben chiare e distinte, e soprattutto, tra due elementi che appartengono a due mondi, anzi a due ambienti (è in questo testo che viene usato per la primavolta
il termine Umwelt in senso specificamente biologico) differenti e regolati
su codici funzionali del tutto propri. «Tracciamo intorno a ciascuno degli animali che popolano il prato una bolla di sapone che ne rappresenti l’ambiente e che contenga tutte le marche percettive accessibili al soggetto. Non appena entriamo in una di queste bolle di sapone, i dintorni che fino ad allora circondavano il soggetto si trasformano completamente.
Spariscono molti dei colori di cui era pieno il prato, altre proprietà emergono dallo sfondo, si producono nuovi rapporti. In queste bolle di sapone si formano mondi nuovi». Per una zecca, gli unici stimoli significativi per la sua sopravvivenza, le uniche marche percettive di cui è dotata, sono quella olfattiva (l’odore dell’acido butirrico, presente in tutti imammiferi,
che la avverte dell’arrivo della preda) e quella termica (il calore della pelle
umana che le segnala di essere arrivata a destinazione). A differenza dell’uomo, la zecca non sente e non vede. O meglio, nell’ambiente della zecca, in quella bolla di sapone che per lei è il mondo, non esiste suono e non esiste forma.
La forza dirompente del concetto di ambiente per Uexküll sta infatti nella teorizzazione di un insieme dimondi diversissimi tra loro, eppure in una costante interrelazione-sovrapposizione l’uno con l’altro, in cui ci sia una totale coincidenza tra la struttura ontologica dell’ambiente stesso e le caratteristiche percettive del soggetto che lo abita. Tutti gli esseri viventi sono adattati all’universo che li circonda con una perfezione millimetrica.
Esistono ambienti semplici per animali semplici, mondi composti addirittura
da un solo e unico stimolo meccanico, come la realtà del paramecio o della
medusa. E mondi più complessi, in cui via via sempre più elementi si «accendono di significato» (diventano marche percettive), a seconda del diverso numero di circuiti funzionali di cui è fornito il loro principale inquilino (per un gatto o un cane, una stanza èmolto più «satura» che per una mosca).
Ne consegue quindi che il reale è sempre, per Uexküll, un reale soggettivo di cui i diversi elementi costitutivi, per esistere, devono essere costantemente trasformati in immagini e marche percettive dotate di una o più tonalità operative. A seconda delle diverse «bolle» in cui si trovano ogni volta a essere collocati, gli oggetti delmondo scompaiono e riappaiono come in un gioco di magia. E questo non solo all’interno dei rigidi meccanismi che regolano la vita nel regno animale, ma anche, con le debite differenze,
per quanto riguarda l’uomo. Così come una cavalletta se salta di fronte a una taccola è perduta, mentre se resta immobile diventa immediatamente non-esistente, perché la taccola non possiede la marca percettiva della forma, ma solo quella delmovimento, per un uomo dell’Africa centralemesso per la prima volta di fronte a una scala a pioli, quest’ultima sembra esistere solo in quanto serie incomprensibile di bastoni e di buchi perché l’immagine percettiva della scala, per lui, non è stata ancora «illuminata» dalla sua tonalità operativa (in questo caso la tonalità della salita).
È evidente quanto un impianto teorico di questo genere apra immediatamente un ventaglio di questioni di carattere filosofico di ampia portata. Da un’idea di uno spazio e di un tempo percettivi e ogni volta riconfigurati dalla struttura neurologica del soggetto, fino al problema
della differenza tra ambiente animale (preformato da una rigida griglia istintuale) e habitat umano (in cui tutto può diventare significativo), accennato alla fine del testo e in seguito ripreso e discusso, con diversi esiti, da Heidegger e da Gehlen, il pensiero di Jakob von Uexküll è stato certamente determinante per i più svariati ambiti della ricerca contemporanea. Merleau-Ponty, Deleuze, Binswanger, Cassirer, Caillois: tutti hanno dovuto fare i conti con l’idea di un’organizzazione del reale in cui fosse cruciale la distinzione tra segnale e rumore (tra ciò che è un segno pertinente per la sopravvivenza del singolo e ciò che non lo è), così come
tra necessità istintuale e libertà. Se l’animale infatti vive in un mondo di segnali, rimanendo prigioniero all’interno dei confini strutturali del proprio ambiente (non può uscirne perché, di fatto, non può uscire da se stesso), l’uomo è libero di trasformare ogni volta i rumori in segnali e viceversa, modificando l’ambiente in cui vive non attraverso gli istinti, ma attraverso i simboli, creandosi ogni volta «bolle di sapone» artificiali per poi modificarle, cambiando le regole del gioco nell’atto stesso della loro legittimazione. Che l’innata capacità demiurgica dell’uomo, la sua diversità strutturale rispetto agli altri esseri viventi, sia poi un vantaggio, o di fatto una condanna, questo è tutto un altro discorso.