Recensioni / E se apparisse un metro cubo d'oro?

E se un bel giorno nella stanza mi si materializzasse un metro cubo d'oro massiccio? E se una notte mi venisse a trovare mio padre morto, che ha bisogno di usare il bagno di casa mia? E se mi accorgessi che, appena volto lo sguardo, le cose che vedevo fino a un momento fa spariscono?
Sono alcune delle elucubrazioni - esilaranti per gli assunti di partenza ma soprattutto per i ragionamenti cui danno il via, a soqquadro di qualsiasi organicità logica - raccolte in Operette ipotetiche del modenese Ugo Cornia. È il secondo suo titolo pubblicato da una collana, la «Compagnia Extra» diretta per Quodlibet da Ermanno Cavazzoni e Jean Talon, che pare fatta
apposta per i tipi come lui: talenti anarchici, impossibili da ottimizzare
editorialmente nonché da etichettare per i lettori.
Il cartellino che si tende a usare, quello degli stralunati emiliani, serve in effetti solo a mettere assieme chi non sta assieme a nessun altro - e se è per questo neppure a se stesso (il titolo della collana è in tal senso perfetto). Negli altri suoi libri, quelli usciti da Sellerio e Feltrinelli che gli hanno guadagnato un pubblico limitato ma accanito, Cornia ha seguito due condotte (parlare di strategie, nel suo caso, sarebbe un controsenso): da un lato il monologo affannosamente paraipotattico, à la Thomas Bernhard,
dall'altro (nel caso delle Storie di mia zia, modellate sul giuoco dell'oca) la strutturacombinatoria che prova a tenere assieme frammenti narrativi, per il resto, perfettamente centrifughi. Nei libri in apparenza «minori» dati a Quodlibet invece - nei quali non c'è traccia di scheletro connettivo e dunque i «pezzi» si susseguono ineguali, e desultoriamente strafottenti - si distilla un Cornia quintessenziale, millesimato: da mandare in brodo di giuggiole gli aficionados.
Unico barlume di coerenza, come si accennava, l'andamento ipotetico. Come ben sapeva uno dei maestri di Cornia, Giorgio Manganelli (che intitolò Hyperipotesi la sua adesione a un'«ipotesi di lavoro» come il Gruppo 63, e
che sul periodo ipotetico imperniò la sua opera estrema, Nuovo commento), questo artificio associa una continuità stilistico-retorica («alta» e manieristica nel suo caso, studiatamente ruspante e naïve in quello di Cornia) e una proliferante discontinuità strutturale: ogni ipotesi apre una serie di «bivî» concettuali e sintattici che frantumano, col dettato linguistico,
il panorama mentale. Esempio persino dimostrativo sono qui le pagine 100-104, nelle quali Cornia descrive (non sto a dire il perché) la scena più famosa di Frenzy: così come la scena di quel «furbone» di Hitchcock è tutto un piano-sequenza, senza stacchi di montaggio, così lui s'impenna sulle
montagne russe della sintassi, senza mai un punto fermo, per cinque pagine filate. Un hors d'oeuvre da lasciare senza fiato.
Allo stesso modo lasciano stupefatti, i pezzi del libro, per la combinazione di retoriche «basse » e «classici» repertorî filosofici e teologici - come la dialettica fra monoteismo e politeismo o l'esse est percipi del vescovo Berkeley - che mostrano come il vero archetipo di questa scrittura non sia da cercare nell'aggettivo del titolo, bensì nel sostantivo.
Usando ritrovati stilistici remotissimi, al modo di quelle «morali » di Leopardi anche queste «ipotetiche» di Cornia ci mettono di fronte agli interrogativi più radicali e ai paradossi più squisiti: «con leggerezza apparente».