Recensioni / Voglia d'ali e di parole

Scopriamo subito le carte: la recente pubblicazione de L'uomo che camminava per le strade (Quodlibet), che assembla in bell'ordine una dozzina di racconti darziani, mi sembra evento tale da mandare in sollucchero i cultori (sarà lecito sperare sempre più happy e sempre meno few?) del grande scrittore reggiano. Ove “grande” - mi preme mettere in chiaro - non vorrebbe evocare alcun busto di marmo: solo una “grande”, sovrastante, incombente presenza, . che sarà, non potrà essere che, la presenza  di un “grande” fantasma: o, al limite, dell'”uomo grande” del circo.

Certo, non v'è neanche un inedito: ciò malgrado, la ristampa di questi racconti - parte usciti soltanto in rivista, parte già accolti da «Nostro lunedi», la silloge del 1960 da tempo introvabile - può davvero servire a far luce, a chi a D'Arzo sia giunto solo in anni recenti, su uno snodo - che, manco a dirlo, è poi un'ambiguità - a dir poco cruciale della narrativa darziana.

Si leggano due storie del '40, scritte precisamente negli stessi mesi in cui prendevano corpo i capitoli del brano che dà titolo al libro (racconto che esibisce stilemi ritornanti in altri passi darziani, ma qui, a mio parere, messi a frutto con risulta ti espressivi inferiori). Sono “Una storia così” e “Fine di Mirco”: le separa, e congiunge, un intervallo di appena quattro mesi febbraio ’40 la prima, Giugno la seconda) Eppure, in questo lasso di tempo, sembra avvnire una sorta di rivoluzione copernicana. Silenziosa, certo, e ovattata, senza clamori che non siano immediata. mente smorzati da una sordina di tenebra, giacché in D'Arzo il dolore pare potersi esprimere soltanto da lontananze siderali o abissali: ma rivoluzione senz'altro, e non piccola.

Protagonisti, qui come lì, gli angeli (e ci è noto come in questo scrittore ogni lacerto di «realismo magico» venga sempre. pervertito e posseduto, reso proprio, dalla febbre di una vera ossessione). Ma, nel racconto di febbraio, realtà vince il sogno, .e lo vince così, senza scarti apparenti: gli angeli, queste pallide epifanie di una vita al di là dalla morte, di una vita che ha abolito la morte, sono, alla fine, sdegnosamente ricusati: perché questa vita diafana, fredda, distante, è propria. mente - la Morte: mentre la Vita vera è quella che si apre qui, in questo mondo di carne e di sangue segnato dalla nostra finitudine, dal dolce tepore dei nostri corpi mortali.

Quattro mesi dopo, il volto di D'Arzo è tutt'altro. Ora il mondo è solo l'inutile mondo del peso, della gravità che recide, che tarpa ogni volo e ogni sogno; il mondo ottuso degli uomini che trascinano la propria carne per le strade: uomini della «grande schiatta comune» sfiorati da parole volatili che non saranno mai in grado di raccogliere - mentre, su tutto, si stende l'incanto senza fine della notte, di quella luna e di quel cielo, verso cui la leggerezza delle nostre ali non ha mai cessato di mirare.

Accostiamo ancor di più, teniamo stretti insieme i due racconti: e trasformiamo quella «rivoluzione» in mera oscillazione fra due poli. Non c'è già tutto il “Corsiero”, il suo Funambolo, in questa oscillazione? la disperata aspirazione al cielo, il desiderio di aria e angeli, l'anelito supremo alla verginità della luna o alla castità di ali che ci permettano di uscire, di andarcene dal mondo? non c'è già, qui .anche il presagio del vuoto, tutto il terrore e l'orrore di quel vuoto, che le regioni mediane del cielo le uniche cui noi possiamo accedere - spalancano incessantemente davanti ai nostri occhi di luna? Il «Corsiero», si badi, giungerà di li a poco ('42- ma l'ipotesi che una prima stesura risalga addirittura al '38 non sarà peregrina). E' un fatto, comunque, che “Una storia così” sia giusto il primo dei due racconti - col passare dei giorni, delle settimane, dei mesi, D'Arzo sarà sempre più disperatamente invischiato da -quella InfinitA ragnatela di vuoto. che ((Una storia così», con un. gesto di rifiuto sovrano, riusciva ancora a arginare - e che dilagherà, vice-. versa, dentro i fogli degli anni a venire, fino al clangore delle domande senza altrove, al mondo muto, metallico, scabro, “color di neve sporca” e di zinco, che, nelle pagine di “Casa d'altri” e dei racconti coevi, nessuna illusione di ala o di luna potrà più rischiarare.

Manganelli. Confesserò che quest'estate, mentre leggevo Il cardillo addolorato della Ortese, ho avvertito più forte che mai la mancanza di Giorgio Manganelli. Questo romanzo enorme e delicato, animato da un pathos, da una pietas, da una fantasia metamorfica, da un'intelligenza dello strazio e dell'incanto del mondo che forse non hanno eguali nella letteratura italiana degli ultimi trent'anni, avrebbe avuto tutte le carte in regola (non fosse giunto così tardi) per entusiasmare Manganelli: la quête metafisica dissimulata nei finissimi ricami della favola, il delirio fantastico tenuto a bada (non a freno) dalla più rigorosa delle architetture, e un paio, -almeno un. paio di personaggi (di creature) che ti si stampano dentro con la-forza luminosa (numinosa) di chi proviene dalle più fonde latebre dell'anima e del mondo, e subito capisci che non se né potrà più andare via.

Mi sarebbe piaciuto leggere cosa ne avrebbe scritto: non tanto. per il gusto di sollevare un altro velo in direzione del cuore occulto del romanzo (mai come in questo caso si comprende come la verità della letteratura sia un pozzo senza fondo, interminabile), quanto perché il «Cardillo» avrebbe senza dubbio dettato a Manganelli qualcuna delle sue pagine più intense. Difatti: che altro è la recensione - il commento - se non letteratura, fiction al quadrato?

Nuovo commento è giusto il titolo della seconda opera narrativa di Giorgio Manganelli, uscita da Einaudi nel '69 e appena ristampata da Adelphi con una lettere di Italo Calvino a modi postfazione. Libro vertiginoso e labirintico, cruccioso e beffardo, costituito da una serie di note attorno a un testo che manca (ché forse non esiste - o, se esiste, sta altrove): le prime quaranta pagine lanciano un'autentica sfida alle capacità dirò così, “enigmistiche” del lettore, giacché constano di un perverso sistema di note concentriche,. ciascuna delle, quali .rimanda a sua volta a note ulteriori (io stesso, armato di carta, penna e pazienza, ho impiegato un'ora abbondante a ricostruire il percorso corretto). Sistema nevrotico, certo: ma sappiamo come questo scrittore abbia elevato la nevrosi ossessiva a dignità letteraria. Per Manganelli, ogni commento ha da essere anzitutto attentato, «deici-dio», cattura di quegli dei che presiedono le sacre regioni del testo- soprattutto di quel testo supremo che è il mondo. Poiché siamo esclusi irreparabilmente dalla verità, poiché mondo giace dinanzi ai nostri occhi come «utero morto del nulla», noi non possiamo far altro che ingravidarlo di parole, violentarlo e corromperlo di seme verbale. Se la verità ci è preclusa, la retorica, la menzogna retorica sarà l'unico strumento di. cui disponiamo: l'ostentazione abnorme, cerimoniosa, lussuosa e luttuosa (ove il lutto non finisce di volgersi in lusso), pertinente e cialtrona dei nostri ordigni verbali (lemmi desueti, aggettivi bizzosi . e capziosi; callidi ossimori, perito se litoti), insieme alla pre-dilazione per il basso, il losco, l'osceno, il riso sgangherato da corpacciuto barzellettiere da caserma, pare l'unico humus capace di nutrire le nostre incessanti investigazioni del testo.
Se D'Arzo, come il notevole libro di Paolo Lagazzi (“Comparoni e l’altro”) ha mostrato una volta per sempre, tutto sommato è ancora uno scrittore “fantastico”.
Manganelli è uno scrittore “mostruoso”: la letteratura, per lui, non può essere che naturalmente, essenzialmente “mostruosa”, perché soltanto il «mostruoso» - questo luogo intensamente devoto .a epifanie ed agnizioni, a tutto quanto per l'appunto si mostra può fornirci la chiave per accedere al segreto del testo.
Ma la serratura dov'è? Le note dovrebbero indicare a noi tutti il luogo privilègiato del libro, questa è la loro funzione: ma se le note sono ovunque, dove' sarà questo luogo? dove potrà mai essere il libro?
Così, Nuovo commento pare concludersi con uno scacco. Come • ci dicono le due “fabulae” poste significativamente al centro e in quell'altro luogo centrale che è la fine del libro, la nostra ricerca deve concludersi necessariamente con li morte. Il «commentatore fortunato» deve morire, per comprendere appieno la vita e la morte di Federico H.; l'indovino tutt'intento a studiarsi la «grammatichetta dei fulmini» deve lasciarsi incenerire, per accedere al -centro del cielo, e così farsi «ordine,- senso e segno . dei segni; inesauribile stemma» In queste pagine, dietro il sontuoso, esilarante drappeggio verbale con cui ci si offre, Manganelli dimostra ancora di abitare in un luogo non meno vuoto e desolato delle vuote e desolate contrade darziane. Il gioco fuori . misura, ilare, tragico, ma forse non del tutto insensato, di scrivere lo ha con-dotto in qui: a comprendere come la letteratura, che pure è. la nostra unica arma, possa solo accostar- si con scarti e progressioni infinitesimali alla verità - senza centrarla, senza cadervi mai dentro. La verità ci verrà in faccia soltanto con la morte - la verità, forse, non è nient'altro che la morte.