Recensioni / Riviste: c'eravamo tanto odiati

 «Diario» e «Alfabeta», due modi diversi di intendere la critica

Erano già allora, quando nacquero, due iniziative culturali per tanti versi opposte. Da una parte per dieci anni, dal 1979 all’88, il mensile «Alfabeta» accoglieva giovani e patriarchi, accademici, semiologi, strutturalisti, critici marxisti e no, giornalisti, scrittori e poeti neoavanguardisti e tradizionali, filosofi deboli e forti, psicoanalisti, artisti, sociologi, allo scopo di «esplicitare  come fu detto in sede di bilancio  il senso politico della propria attività di ricerca». Un’esperienza collettiva e politica. Dall’altra, «Diario», con i suoi dieci numeri dal 1985 al 1993, fu una rivista «esclusiva» inventata, diretta e scritta da Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli: un periodico fatto in casa, antiideologico e inattuale che rifiutava tutti gli ismi, accademici e politici. Erano le ultime (le penultime) riviste del secolo delle riviste e dei manifesti. Erano i tanto vituperati anni 8o. Ora che siamo ben dentro al secolo successivo, sono tornate. «Alfabeta» con la pretesa di rilanciarsi in una seconda serie; «Diario» con il desiderio di farsi rileggere in raccolta anastatica (Quodiibet). La prima è un’esperienza che si riapre a tutti gli effetti, la seconda è un’esperienza consapevolmente chiusa sul piano operativo, ma non sul piano ideale. Erano e restano, anche per gli eredi, due mondi alternativi. Chi l’avrebbe detto che le riviste (cartacee) potessero tornare a risuonare (anche polemicamente) al tempo del web e dei blog?
Per esempio, provate a sentire lo scrittore Tiziano Scarpa, che anni fa ha fondato la rivista online «Nazioneindiana» e che oggi è tra i direttori de «Il primo amore». Che cosa pensa dei rilancio di «Alfabeta» e della ristampa di «Diario», riviste nate quando lui aveva poco più di venranni? «Mi fa piacere veder tornare ‘Diario», che era una rivista pressoché clandestina, ed è ancora oggi il simbolo della forza della letteratura come obiezione individuale, del suo valore fondante come mobilitazione singolare, in un’epoca in cui la letteratura diventa opera collettiva». Molto meno entusiasmo per il revival di «Alfabeta», su cui Scarpa ha scritto una breve satira in cui ipotizza la nascita di un «Politecnico4», di una «Lacerba7» e di una «Frusta letteraria32»: «Mi immalinconisce vedere trenta e quarantenni che, per avere più forza o per motivi strategici e di convenienza, si devono mettere sotto la proiezione e l’egida di vecchi intellettuali: mi sarebbe piaciuto vedere qualcosa di nuovo proprio oggi che la formarivista si è completamente rinnovata grazie alla rete. Per me è una scelta sbagliata». Eppure, tra i periodici formativi dei suoi anni giovanili Scarpa ricorda anche «Alfabeta» per la ricerca tra critica, sperimentalismo e postmoderno. E non dimentica  oltre a «Diario»  «Leggere» e «linea d’ombra»: quest’ultima, in particolare, fu «un colpo di genio di Fofi, che grazie a tanti professori universitari frustrati aprì le finestre a letterature straniere ancora ignote, dal Sudafrica all’india al Canada».
Ed ecco qui, Goffredo lofi, il guru delle riviste italiane. Che dopo aver contribuito a «Quaderni piacentini» e aver fondato «La Terra vista dalla Luna», «Ombre rosse», «Linea d’ombra», nel ‘97 ha inventato «Lo straniero». E individua varie ragioni nella crisi delle riviste: «L’invadenza dei media e la tuttologia dei grandi quotidiani, la pigrizia di lettori soffocati dalla pubblicità e dal consumo, e l’estremo provincialismo della nostra cultura». Auspici per eventuali nuove iniziative? «Spero che siano opera di piccoli gruppi di giovani determinati, insoddisfatti nel profondo del mondo in cui vivono e delle chiacchiere che vengono loro ammannite per giustificarlo, e che questi giovani imparino di nuovo a guardare criticamente al loro contesto, e non siano smaniosi di «emergere» ma di dire il vero e di contribuire a cambiare il mondo in meglio». Però le riviste, a ben guardare, non mancano affatto: «Di riviste poco interessanti ce n’è tante, accademiche o di piccole consorterie anche simpatiche ma di scarso orizzonte. Le nuove spero che nascano lontano dai cosiddetti centri, che smerciano sottocultura e non inventano nulla da tempo. Continuo a pensare che di gruppi che studiano e discutono ci sia bisogno, se fatti da nonnarcisi, da persone seriamente preoccupate del disastro culturale e morale del Paese. Sarà dura, ricostruire reti di pensiero non spettacolare e modaiolo, anche se per fortuna ci sono in giro molte lacce e penne nuove che mi rassicurano».
L’evidente che non è in questa direzione che è stata pensata «Alfabeta2». Sentite Andrea Corteitessa, critico letterario della generazione di Scarpa, ma attratto dall’esperienza di «Alfabeta» al punto da essere uno dlei protagonisti del revival di cui si diceva: «Rileggendo «Diario» mi colpisce l’aspetto della cronaca culturale, cioè la capacita di fotografare precocemente le mode che poi si sarebbero espresse in maniera visibile a tutti. La critica più devastante era contro l’intellettuale organico anche se si esprimeva qualche volta in maniera divergente tra Bellocchio e Berardinelli. “Alfabeta» è il contrario: il sentire comune di un’insofferenza spinta verso un policentrismo stremato e a volte caotico. Mentre lo stile di «Diario» era fortemente inattuale, per «Alfabeta» il legame con l’attualità politicoculturale era importante. Oggi però fare un mensile di intervento significa sperare di raccogliere parole condivise da osservare da più punti divista. E la necessità di approntare un laboratorio, uno spazio fisico e mentale, in cui discutere non solo dei testi ma dei contesti produttivi». La tutela dei vari Eco, Balestrini, Calabrese, Rovatti? Nessuna tutela: «E’ qualcosa di inedito almeno dal punto di vista umano: II desiderio di trasmettere a generazioni più giovani una tradizione, la volontà di mettere a disposizione spazi e visibilità che altrimenti sarebbero difficili da conquistare ex novo. Ogni eredità, poi, va messa in discussione e magari tradita». Tradire anche pensando a formule nuove, magari dal «carattere anfibio», come dice Cortellessa, che distinguano cioè non tanto tra «barbari e barbogi», ma tra tempo immediato (della rete) e ternpoprogettuale (della carta).
Alfonso Berardinelli chiede di interpretare la ristampa di «Diario» per quello che è: l’esempio di un esperimento ancora possibile. Un esperimento che ai tempi fu capito da alcuni e disprezzato da altri che accusarono B & B di individualismo antipolitico. «Era il contrario del gruppo. Volevamo uscire dal noi politico e abbandonare ogni riferimento coatto al marxismo, sostituendolo con i grandi classici non ideologici, da Kierkegaard a Orwell. Quell’esperienza e quella lettura potrebbero avere un pubblico nuovo di intellettuali che sono ai margini dell’editoria e alla ricerca di formule comunicative: ecco, la nostra è stata una sorta di personalizzazione della comunicazione pubblica, come un monologo che avesse un interesse generale». Una formula comunicativa da prendere a esempio? Ma non ce ne sono fin troppe in giro? «Credo che in una fase di grande disoccupazione intellettuale, si debbano inventare lavori e formule di autorganizzazione creativa. E ‘Diario’ potrebbe essere ancora un esempio su cui riflettere». Una rivista di 1500 copie fatta in casa e mandata (anzi portata) in libreria senza scadenze troppo fisse. Tutto il contrario, appunto, di «Alfabeta»: «Non mi è mai piaciuta. «Alfabeta» proponeva le cose che noi combattevamo: iperculturalismo e ideologia. Noi volevamo disintossicare il linguaggio della critica, tornando a una scrittura di ispirazione personale e facendo cadere i gerghi. E non vedo perché oggi si debba chiedere la consacrazione ai patriarchi».
La risposta a Carlo Formenti, che era nel comitato storico di «Alfabeta» e ritorna nella seconda serie: «C’è una sorta di strabismo che testimonia la perdita di prospettive storiche: “Alfabeta” non è “La Voce”, è una rivista che risale a vent’anni fa. E oltre a Maria Corti e Spinella, c’era una serie di intellettuali giovani come Ferraris, Calabrese, Dal Lago, che oggi non sono vegliardi. E poi, per i giovani che gestiscono oggi la seconda serie, è importante recuperare e rivendicare il senso dell’esperienza di «Alfabeta» non certo per riprodurla. E il senso originario di una rivista schierata, impegnata a fornire riflessioni teoriche e materiali per il cambiamento vale ancora oggi. Altro che nostalgia o passatismo! Fra l’altro crescerà anche il lavoro autonomo on line, con collettivi di giovani ricercatori, intellettuali, artisti».