Recensioni / Pagine dal «Diario» di un'epoca perduta

Da tempo conosciamo sia Piergiorgio Bellocchio, grazie a libri come Dalla parte del torto (1989) e Al di sotto della mischia (2007) che Alfonso Beradinelli almeno per L'eroe che pensa (1997) e Casi critici (2007). Bellocchio è stato nel 1962 il fondatore dei «Quaderni piacentini», rivista alla quale - dagli anni '70 - Berardinelli ha collaborato: entrambi all'origine si sono fatti interpreti di una sinistra senza chiese e senza partito di riferimento. Li conosciamo, dunque: ma solo in apparenza. Basta leggere, infatti, la riproduzione fotografica integrale di «diario», la rivista diretta e redatta a quattro mani fra il 1985 e il 1993, ora mandata in libreria da Quodlibet, per rendersi conto che da quelle pagine ci giunge di loro qualcosa di essenziale, una terza dimensione, lo spessore di una proposta inevasa, una grande occasione. Pagine ascetiche, innanzitutto: negli anni emblematici del nonsenso italiano, da Craxi a Berlusconi, dalla marcescenza della partitocrazia all'illusorio sussulto civile di Mani Pulite, Bellocchio e Berardinelli affidano il loro progetto a fascicoli tirati in «poco più di mille copie», confezionati col «ritorno alla composizione grafica tradizionale a piombo (con esclusione totale della pubblicità) e alla vecchia distribuzione diretta eseguita di persona». Il mezzo almeno in parte - è il messaggio: nessuna automortificazione, ma una scelta di nitore non compromissorio, un'autarchia guardinga ma personalmente tutta disponibile, anzi invitante. Dieci numeri, un'ottantina di pagine ciascuno, in cui i due autori pubblicano gli scritti migliori di quel loro tempo - poi rifiniti e rimontati nei maggiori dei loro libri - a rappresentare, come dicono nel finale della Premessa a questa ristampa, gli «anni più liberamente e felicemente produttivi della propria attività letteraria».
«Un'impresa letteraria», infatti, è stata «Diario»: e proprio da scrittori - rinunciando alla qualifica e
al potere di tribuna di un intellettuale - Bellocchio e Berardinelli hanno potuto vivere e scrivere nella piena libertà. Piacere difficile, evidentemente, come quello di suonare in controtempo, facendo sottendere alla musichetta egemone, e persino a una supposta Direzione della Storia, un'armonia diversa, per un udito forse selettivo, ma sempre provocabile. Ecco il concerto, allora, che gli scritti dei due autori compongono con quelli dei grandi che di numero in numero vengono ripescati e antologizzati, in segmenti fulminanti e maliziosamente isolati delle loro opere. Sono proprio Kierkegaard, Leopardi, Thoreau, Tolstoj, Baudelaire, Simone Weil, Herzen, Orwell e Rabelais a dare quella terza dimensione di cui dicevo, e insieme l'idea che ogni critica della cultura, finanche della più immiserita contemporaneità, si autentica solo se a lungo si è viaggiato per le vie di un'imponente città sotterranea. Le controverse, irritanti pagine di questi giganti, invitati a forza al parco convivio, sembrano accomodarsi volentieri in una tradizione personale che dal più anziano Bellocchio trascorre al più giovane Berardinelli. Non sappiamo chi per primo ha scelto le pagine dei propri classici: ma è indubbio che ognuno di quei brani reagisce diversamente, con echi diretti, inclinazioni, convergenze, a contatto con le differenti nature di scrittore di Bellocchio e Berardinelli. I nostri due autori si mantengono sotto l'altissimo ricatto di questi testi dismessi, di questi revenants della morale letteraria, alludendovi continuamente, mentre sembrano peregrinare attraverso la piattezza dell'oggi. Sembra che il primo autore prescelto appaia proprio sotto l'egida di Bellocchio: l'apocalittico, estremo Kierkegaard vicino alla morte. In quella asfissia d'ogni speranza, in quella lotta acerrima contro la tiepida ipocrisia del Cristianesimo moderno, Bellocchio deve aver trovato le radici del proprio radicalismo intransigente, e pungente misoneismo. La sua forma d'elezione è l'aforisma, prolungato o compatto, sempre insindacabile, volutamente sordo nei confronti della cultura diffusa, colpita con serietà nutrita e giudicante. Concreto ma universale, come un perenne brontolio celeste, Bellocchio si scioglie però spesso in splendidi micro-romanzi sociali e psicologici, a cui proprio la scarna crudeltà dell'aforisma fornisce la sobrietà del taglio.
Il saggismo di Berardinelli, invece, ha verdetti meno verticali, è più liquido, connettivo e variabile. In lui l'ascetismo apolitico non deriva dal rifiuto del mondo, ma dal non credere abbastanza nella sua solidità. Per questo, laico e ironico, Berardinelli vi resta adiacente, insieme promiscuo e fuggitivo, abbandona le forme stringenti, ne critica gli eccessi nelle pagine esemplari contro gli assolutismi di Cioran, la para-filosofia di Heidegger o gli Stili dell'estremismo, in uno scritto che rappresenta senza dubbio uno dei vertici della saggistica italiana non solo recente, e che sembra curiosamente rispondere, nell'ultimo numero, al Kierkegaard del primo. Di fatto, se l'aforisma è conservatore, il saggio è liberale. E se Bellocchio rifiuta e polemicamente ricorda, Berardinelli critica: il tono satirico non dimissiona - come può invece nell'aforisma - un più disponibile pedinamento analitico e descrittivo. Non a caso, lo scrittore romano si è recentemente definito come intruso: ovvero come colui che venendo dall'esterno, e dalla nostalgia di questo, è riuscito a mimetizzarsi nella casa comune.
Differenze, dunque: ma in un gioco ambiguo. C'è un Berardinelli aforista e un grande Bellocchio autore di saggi come quelli su Pasolini e sul processo contro Sofri e Lotta Continua. Per i due scrittori, allora, questa riproduzione fotografica di «Diario» equivale a una radiografia: e il referto dice le articolazioni interne di una strana, forse estranea, intimità, raro esempio di bivocalità distinta e solidale. Con tutto ciò che di lussuoso resta in questa solitudine a due, in questa arrischiata noncuranza dell'utile, comunitaria menzogna, che chiama a conferma il vagabondaggio saggistico di Orwell o il sublime logico della Weil. C'è il lusso di restare «attaccato, forse per sempre, alla fossa dell'ideale», come dice Baudelaire; e insieme, per necessità, la sprezzatura di una prosa naturale, cristallina, inappellabile. E questo che fa di «Diario» una delle più interessanti riviste del secondo '900, uno dei piccoli paradisi che forse abbiamo perduto.