Recensioni / La "bella morte degli antichi"? Un addio vissuto con stile

Ora la nostra fine è ospedaliera, o mediatica. ma un tempo l'ultimo atto contava più della vita stessa. come mostrarono Plinio ed Epicuro. E un libro racconta.

La morte non è mai come te l'aspetti. Oggi si muore di morti ospedaliere. O di morti solo in apparenza estrose, da immaginario mediatico. Noi temiamo la morte come qualcosa che non ci appartiee. Eppure la morte è umana. Lo sapevano gli antichi: allora si moriva di morti belle. La morte era il culmine della vita, ne era la somma perfezione nel senso di percifere, portare a compimento. E se il caso o la natura erano avversi, procurando una morte non degna, allora la si correggeva con la parola. Gli antichi avevano elaborato forme classiche per morire. La morte era vita. Ed era un fatto sociale. Morire è più facile che nascere, diceva Seneca, per questo bisogna approfittarne.
Nel catalogo delle morti nell'antichità non se ne trova quasi mai una banale. Ora un libro, che dobbiamo alle penna di Dino Baldi, ci racconta le Morti favolose degli antichi (in libreria per Quodlibet). L'autore fa sue le parole di Montaigne: «Se fossi un editore, farei un repertorio ragionato delle varie morti. Chi insegna agli uomini a morire, insegna loro a vivere». La capacità di dialogare con la morte è l'indicatore del livello di civiltà.
Nell'antichità si moriva di morti pubbliche, retoriche e crudeli, spesso ironiche, sempre raffinate. Si moriva con disinvoltura, senza rimpianti. Come il vecchio Epicuro, che si immerse in una vasca di acqua calda e morì bevendo vino schietto. O Plinio il vecchio, che sorpreso dall'eruzione del Vesuvio cui si era avvicinato per osservarla meglio, piuttosto di fuggire in maniera scomposta, preferì stendersi e aspettare il destino.
Il catalogo di queste morti è vario: dalle morti apparenti (Gesù) a quelle perfette (Platone nel giorno del suo ottantunesimo compleanno, ammirato per aver raggiunto il numero perfettissimo: nove volte nove). O la fine del poeta Lucrezio, autore del «cerchio perfetto in cui si nasce, si impazzisce, si scrive il De rerum natura e ci si uccide». Ma anche quella dell'imperatore Claudio, avvelenato dalla moglie Agrippina per favorire il figlio Nerone. Seneca così la descrive: «Le sue ultime parole, espresse con la parte del corpo con la quale parlava più volentieri: “oioi, mi sa che mi sono cacato addosso". Non so se fosse vero: di sìcuro, smerdò tutto».