Recensioni / Las Vegas, la città del nulla è diventata un modello

Non simbolo del Kitsch, ma esempio per architetti e urbanisti: il libro che 40 anni fa fece discutere l'America

C’è ancora tutto da Imparare da Las Vegas: oggi più che mai. Di fronte alle mille luci di città americane, alla crescita dirompente dei tessuti urbani, al restyling commerciale dei centri storici e allo spuntare come funghi di megalopoli orientali, torna buona la lezione che Robert Venturi e Denise Scott Brown vollero dare studiando sul campo – e cioè nel bel mezzo del deserto del Nevada – la città che in un battibaleno vi era sorta come un miraggio. Il viaggio studio da Yale a Las Vegas fu compiuto – dai due professori più una decina di studenti – nel 1968. Il libro formidabile che dà conto di quella ricerca uscì in prima edizione nel 1970 e con qualche variazione nel 1972. Quarant’anni fa si propose come una provocazione: la consapevole rottura di una tradizione o la presa d’atto di un’avvenuta rivoluzione. E scatenò immediatamente un putiferio.

Oggi, riproposto dalla casa editrice Quodlibet nella versione di Maurizio Sabini e per la cura eccellente di Manuel Orazi (Imparare da Las Vegas, pp. 232, E24), si rilegge come uno studio lungimirante, per certi versi addirittura antiveggente: sicuramente come un imprescindibile classico. Con la classicità, va detto, fecero sfacciatamente i conti gli architetti Venturi & Scott Brown – coniugi nella vita, complici nella ricerca – allorché, presentando per la prima volta il loro Learning from Las Vegas, proclamarono che studiare la forma della nuova città che stava emergendo negli Stati Uniti era importante per gli urbanisti quanto studiare i centri dell’Europa medievale, la polis greca o l’antica Roma. Menzionavano nei ringraziamenti Michelangelo, tenevano d’occhio come termine di confronto Vitruvio, prendevano a modello le cattedrali gotiche per ritrovarne i simboli sulle «cattedrali nel deserto» dei casinò.

Facevano perno sulla forma chiusa della piazza italiana – spazio definito da un reticolo di vie, commisurato su scala pedonale, proporzionato alla misura d’uomo – per mostrare quanto la strip commerciale potesse radicalmente scardinarla. Stava appunto a Las Vegas l’archetipo della cosiddetta «strip», sulla Route 66: una lunga strada rettilinea tempestata di cartelloni pubblicitari, insegne luminose, facciate il più possibile vistose di hotel e casinò ben visibili da chi, da grande distanza, a tutta velocità, le raggiungeva viaggiando in auto sulla highway. Niente più pedoni, stradine, spazi chiusi. A ben vedere neanche più architetture perché gli edifici che reggevano quegli apparati sfavillanti non sarebbero potuti essere più inappariscenti. Generici, ordinari. Sciatti. E piatti: «Perché le tecniche di vendita sconsigliano i secondi piani». L’atmosfera «è decisa dai watt». «L’insegna è visibile dall’autostrada prima del motel».

La prima struttura evidente era il parcheggio, «ampio, comodo, facilmente raggiungibile, di prestigio»: anch’esso un simbolo. E poi, del tempio del divertimento, l’oasi, il luogo di ristoro, spettacolo, shopping, anzitutto si vedono i falsi frontoni, gli elementi scultorei, l’ingresso ispirato d ogni epoca e stile: «Moresco e tudor quello dell’Aladdin», «San Pietro/Bernini e Yamasaki in linguaggio e scala, quello del Caesar Palace». Una maschera di facciata che, sul retro, nascondeva le lattine di birra arrugginite gettate a segnare il confine col deserto. A dare un ordine a quel caos galvanizzante, niente più che il ritmo dei grandi spazi che sfilavano da dietro i finestrini. A dare una direzione all’automobilista in corsa, la sequenza dei lampioni lungo il bordo strada. (segue...)