Recensioni / Imparare da Las Vegas, capitale dell'azzardo urbano

La traduzione italiana di Learning From Las Vegas, uno dei testi chiave nella storia dell’architettura degli ultimi quarant’anni, non dovrebbe essere un mero episodio di nicchia. Imparare da Las Vegas (Quodlibet-Abitare, a cura di Manuel Orazi) tratta infatti della forma più diffusa di paesaggio italiano del 2010, anche se è uscito in prima edizione nel 1972 ed è uno studio sulla capitale statunitense dell’azzardo compiuto da una coppia di architetti e docenti universitari di Filadelfia allora quarantenni, insieme con un gruppo di loro studenti dell’università di Yale.
Il paesaggio italiano di cui il testo nei fatti tratta sono le ex-campagne, le coste, le valli divorate dalla cementificazione capillare, atomizzata e generica della suburbanizzazione con i suoi capannoni e le sue villette, le sue insegne e le sue pubblicità, le sue rotatorie e i suoi svincoli. La cosiddetta città diffusa, fenomeno peraltro globale, trova la propria analisi originaria, più propositiva che spietata, nel libro firmato da Robert Venturi e Denise Scott Brown insieme con il loro collaboratore Steven Izenour.
L’obiettivo degli autori era studiare il simbolismo dimenticato della forma architettonica, come recita il sottotitolo della seconda edizione del 1977, decurtata nelle immagini per renderne il prezzo più accessibile.
Las Vegas ai loro occhi apparve come caso studio quasi obbligato, con la sua esplosione d’insegne luminose e cartelloni pubblicitari innestati su una città altrimenti del tutto anonima e cresciuta vorticosamente nel deserto del Nevada a ritmi inediti nella storia urbana. Date le condizioni del dibattito architettonico statunitense di fine anni sessanta già la scelta dell’oggetto garantiva lo scandalo. Pur ben presente negli immaginari collettivi, Las Vegas era ritenuta infatti dalle intellighenzie del tardo modernismo un argomento non parlabile attraverso i propri codici o gerghi. Lo stesso titolo suonava così come un ossimoro provocatorio. In un periodo in cui si cercava ancora di interrogare le parole e gli edifici dei mostri sacri dell’architettura moderna da poco scomparsi (Wright, le Corbusier, Mies van der Rohe, Gropius..), interrogare le statue kitsch dei centurioni a guardia del grande albergo Caesars Palace, un pastiche che voleva evocare l’impero romano, piuttosto che il cartellone dell’olio solare Tanya, con la sua modella in bikini, sembrava voler buttare via tutto.  
Come tutti gli instant-classic Las Vegas è stato più evocato che letto. La grafica volutamente di pronto consumo e l’abbondante apparato iconografico hanno facilitato una lettura superficiale del libro, facendone una dispensa per generalizzazioni. Le più accreditate tra queste sono che l’architettura moderna sia inumana perché fondata solo sul valore d’uso e non su quello simbolico e che di fronte alla rapidità inedita dei processi contemporanei di crescita urbana il controllo razionale esercitato dalla pianificazione di città e territori appartenga a un passato dominato dalle ideologie. Ma la tesi di fondo di Venturi, Scott Brown e Izenour è che la progettazione dei paesaggi antropizzati debba partire dall’osservazione della realtà e non dalla pretesa di sostituirla. Ne discende che l’architetto non deve calare dall’alto del proprio sapere disciplinare soluzioni decise a priori ma deve invece calarsi nella realtà stessa, alla ricerca di un suo senso intellegibile anche all’abitante più distratto. In altre parole, l’architettura deve immergersi nella vita quotidiana, assumendone come tema pure gli aspetti che apparentemente deturperebbero una presunta purezza degli edifici, come appunto un’insegna luminosa su una facciata, piuttosto che un’antenna tv su un tetto. In questo senso Imparare da Las Vegas racconta come i paesaggi casuali e aggressivi della suburbanizzazione dilagante (negli Stati Uniti già negli anni sessanta) possano e debbano essere materia di progettazione. Riportata poi alla situazione attuale, in cui il modello della città diffusa si scontra con il contenimento dei consumi di suolo e di energia ancora prima che con la domanda di governarne le estetiche, la Las Vegas di Venturi e Scott Brown rischia di diventare addirittura nostalgica.