Gaspare De Caro, L’ascensore al Pincio, con una Nota di Mario Lunetta, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 72, euro 11,00.
Gaspare De Caro, storico e saggista, è nato a Roma nel 1930. Sua l’Introduzione a La rivoluzione liberale di Piero Gobetti (nell’edizione pubblicata da Einaudi nel 1964) e la biografia Salvemini, uscita nel 1970. Persistente e d’antica data l’interesse per la storia rinascimentale (nel 1969 esce Istituzioni del principe cristiano; è del 2006 l’ampio saggio Euridice. Momenti dell’umanesimo civile). Redattore del “trimestrale di cultura e politica” «Hortus Musicus» (fino al 2005, quando la rivista ha cessato le pubblicazioni), si è occupato inoltre di storia del pensiero economico, curando negli anni Ottanta, per le edizioni dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, due volumi dell’economista francese Léon Walras e la sezione di Scienze sociali della collana «Bibliotheca Biographica».
Non si smentisce la raffinata collana “In Ottavo” di Quodlibet, che esordiva nel 2003 con Erbe selvatiche di Lu Xun, proseguendo poi con le voci (tra le altre) di Hugo von Hofmannsthal, Robert Walser, Blaise Pascal, Henri Michaux, Georg Trakl. Incline a privilegiare la qualità dei testi (tutti sfuggenti a definizioni di genere precostituite, eppure tutti agevoli e limpidissimi) rispetto alle attrattive suscitate dal nome in copertina, questa collana s’è modellata su un distaccato ma fattivo ascolto dei problemi e degli interessi letterari del momento; proponendosi la sfida di editare, oltre a un canone (per nulla maggioritario) di grandi scrittori del passato recente e lontano, narratori contemporanei come Farrukh Dhondy (Vieni alla Mecca) e Francesco Permunian (Il Principio di malinconia).
Con L’ascensore al Pincio, prosa del battagliero e coltissimo Gaspare De Caro (probabilmente noto ai più come biografo di Salvemini e storico del rinascimento, o ancora come nitido e equipaggiato saggista e articolista militante), si propone oggi – il parere è espresso da Mario Lunetta nella sua ampia Nota al volume – «un atto laico d’intelligenza giudicante» e «un testo di per sé straordinario, che contraddice, sia in sede di Weltanschaung che in sede linguistica, i numerosi esempi di memorialistica italiana firmati a fuoco col marchio delle scritture piccoloborghesi». Non solo: con questo volume, Quodlibet intraprende un’originale linea d’azione rispetto a una delle tendenze più marcate degli ultimi anni, che hanno visto un impressionante proliferare di romanzi, memorie e scritture in proprio prodotte da critici e studiosi di professione.
Pubblicato a puntate sulla rivista «Hortus Musicus» tra il 2003 e il 2004 col titolo Mio padre e dintorni, il racconto edito oggi in volume a solo è strutturato in sei capitoli e gioca sul terreno scivoloso dell’autobiografia e della memoria familiare, ponendo al centro dell’attenzione la figura paterna, guardata da un figlio adulto che ricorda le sue giovanili valutazioni: le ridiscute e le interpreta. Prendendo le mosse dall’inverno 1943 (Gaspare aveva allora 13 anni), l’autore procede a ritroso: descrive le vicende della sua costellazione parentale nella Roma degli anni Venti (dove il padre Mario, sedicenne e transfuga dal Sud, scappa e inizia a lavorare appunto all’ascensore che collegava Piazza di Spagna al Pincio), quindi nella Calabria tra Otto e Novecento, scenario del decadimento della famiglia e poi della vita di don Benedetto, padre-padrone naturale di un invisibile Mario, oltre che farmacista in odore di rivincita sociale, prontamente deluso dalla refrattaria compagine del suo paese (di cui però continua a condividere tenacemente, fino alla morte, tutti gli arcaici «valori morali e intellettuali»). Gaspare ritorna infine alla sua infanzia, quando frequenta assieme alla “zia” (una trovatella cresciuta in casa di Don Benedetto, fuggita parimenti a Roma e autoelettasi protettrice di Mario) lo studio del “Consigliere”, che in nome della comune calabresità («sebbene a rigore il Consigliere fosse di Catanzaro e la famiglia di mio padre dell’opposto versante del tirrenico, ma, si sa, le anime grandi badano poco ai dettagli») e con scopi autocelebrativi («e poi al Consigliere piaceva ostentare con indulgente larghezza le sue eminenti relazioni sociali e gli ingenti benefici che ne potevano risultare») aiuta Mario, ormai sposato e con più stringenti esigenze economiche, a trovare un impiego da facchino, che peraltro avrebbe potuto «conseguire con le sue sole forze».
Lontano da pose nostalgiche o didattiche quando pure allegorizza e motteggia; ricorda o anticipa con pacatissimo coinvolgimento; tira le somme e ragiona, De Caro ci dà la sua minuta epopea familiare con la distanza e la consapevolezza critica di chi racconta per exempla le tappe d’una storia collettiva. Si ricorderà come nel bel libro di Asor Rosa L’alba di un mondo nuovo, lo sguardo del bambino Alberto vada via via organizzando, tra i rivolgimenti del Ventennio, un personale vocabolario: cosa sono la paura, il terrore, l’odio, la vigliaccheria, la tortura, l’amore, l’eroismo. Mettendo in pulito la sua vicenda familiare, guardandola “da lontano” e facendo interagire con essa la formazione di storico, anche De Caro formula un suo impegnativo glossario: dove ad ogni lemma – eroismo, paura, delusione, politica, religione, fuga, giudice – s’affianca un’istantanea del padre, o una figura-chiave della sua storia – fra le altre, la già citata figura del Consigliere, le cui prodezze sono narrate nel sesto e ultimo capitolo, allo scopo di «dare risposta in un caso concreto alla domanda: chi è un giudice? A chi la storia o la provvidenza nella loro saggezza danno il mandato di sciogliere o di legare?». Sebbene povero, Mario accoglie in casa l’amico ebreo negli anni Quaranta (è la banalità dell’eroismo, simile alla banalità del male che «autoassolve l’assassino») né per questo gli è estraneo il sentimento della paura: «era spaventato dalla vita, da ciò che gli aveva dato e da ciò che era per dargli». Un sentimento da cui esce deluso rispetto alle ansie di promozione riposte sul figlio («io sono stato troppo importante per mio padre già prima di esistere: era fatale che lo deludessi») e che lo rende vivissima incarnazione delle frustrazioni intellettuali, delle superstizioni religiose e dell’«invincibile diffidenza politica» cui in genere andò incontro chi «era cresciuto nell’era fascista, se l’era goduta per intero, sin da bambino, con tutta la capillare protervia quotidiana dei gerarchi rionali e capifabbricato e sabati fascisti e oro alla patria, senza contare le belve dei piani alti».
Varrà la pena soffermarsi sullo stile: un lessico ricco e preciso ma mai sovrabbondante, una sintassi sorvegliata, vivace e a volte aspra, sempre intelligibile pur nella sua spigolosità; ne esce la scrittura in proprio di Gaspare De Caro, che modula con sapienza passaggi pianissimi e costrutti arditi, risultando infine – la definizione viene sempre dal saggio di Lunetta –: «obliqua e straniata in un sarcasmo dolente, di grande sapienza retorica e insieme di fulminante immediatezza».