Recensioni / Sogna Dolores, la poesia ti attende

La monumentale edizione dei «Sogni» di Dolores Prato restituisce una delle figure più ignote e interessanti della letteratura italiana

Risalendo indietro al passato immemorabile che sfugge alla registrazione di diari e calendari, il primo ricordo che era riuscita a far riaffiorare fu quello di «tutta la mia inconsapevole giovinezza»: «Tutte le corse di primavera, tutto il segreto, misterioso ansare dell’anima in questa stagione». Riappare in toto – «tutto» è ripetuto ben tre volte –, ma resta segreto il mistero di un’anima percepito dalla mente che dorme. Dolores Prato aveva tuttavia cercato di riacciuffarlo e di fissarlo sulla carta. Così, l’8 marzo 1928, trascrisse per la prima volta la visione – luminosa ma vaghissima: una corsa a primavera per i prati – e l’emozione – tumultuosa e vividissima: come l’ansito di chi esulta a perdifiato – avuta durante il sonno. Inaugurava con quell’annotazione lo straordinario zibaldone dei Sogni compilato con costanza e puntualità per il resto della sua vita.
Visse a lungo la scrittrice che, seppur nata a Roma,il 10 o forse il 12 aprile del 1892, è per lo più considerata marchigiana. Visse 91 anni, e con sempre maggiore lucidità, miracolosamente accresciuta via via che i suoi capelli si facevano grigi, gli occhi appassiti, la vista debole, insisté a sondare nel fondo remoto, oscuro – notturno – della propria origine ed esistenza. Era più che ottantenne allorché ritrovò, con fotografica precisione di dettagli e «con il fulgore della Resurrezione», i giorni della sua prima infanzia vissuti a Treia, nel Maceratese, e descritti in quell’immenso capolavoro che è Giù la piazza non c’è nessuno: gigantesco nella mole e incommensurabile per l’originalità senza confronti. Un’opera altrettanto enorme–abnorme: estranea a qualsiasi norma, categoria letteraria o etichetta di genere – preparò il prodigio di quell’elegia infinita, fiaba incantata, struggente ricerca di un tempo perduto e alla vigilia della morte ritornato. È un’opera del tutto inedita, incompiuta, informe, cui, via via che vi attendeva, l’autrice assegnò vari titoli provvisori: «Il libro dei sogni», «I miei sogni». Con la più schietta dicitura di Sogni esce oggi, a quasi un trentennio dalla scomparsa della Prato, presso la casa editrice Quodlibet di Macerata, con una nota di Gabriele Pedullà e grazie alla cura davvero encomiabile di Elena Frontaloni.
L’impresa di pubblicare un libro del genere – di genere assolutamente unico – è due volte coraggiosa. Intanto per i costi: quelli di un volume di quasi mille pagine completo di impeccabili apparati – note, glossari, dizionario dei personaggi, dottissime prefazioni, autorevoli presentazioni – che il piccolo editore marchigiano ha affrontato senza il supporto di fondi pubblici. È un particolare non secondario, e va tenuto presente con le altre vicissitudini editoriali che hanno fatto la singolarità dell’esperienza letteraria di Dolores Prato.
Occorre ricordare che il suo opus magnum, Giù la piazza, fu consegnato nella versione autografa definitiva del 1979 alla casa editrice Einaudi. Affidato all’editing di Natalia Ginzburg. Drasticamente tagliato perché rientrasse nelle misure dei «Supercoralli» e in un volume affrontabile dalle forze – sempre sottovalutate – del lettore medio. Fu ridotto così a un terzo della lunghezza originaria, pubblicato così stravolto da Einaudi nell’81 e disconosciuto dall’autrice, che si impuntò per recuperare il maltolto.
Con l’aiuto di Giorgio Zampa, riuscì a ripristinare la versione integrale e a farla pubblicare da Mondadori nel 1997. E la riedizione completa fece furore. Fu salutata come la riscoperta di una classico dimenticato. Andò presto esaurita in libreria. Era introvabile da dieci anni quando, per riproporla, l’editore milanese chiese al Comune di Treia diecimila euro per ristamparla. Spesa insostenibile per l’amministrazione cittadina, della quale dunque si fece carico Quodlibet, ripubblicando Giù la piazza nel 2009. Con successo. Tanto che, ristampandolo ora, un anno dopo, l’editore di Macerata si azzarda a proporre anche la sterminata raccolta dei sogni che del grande romanzo di una vita costituì la «vita natural durante» incubazione.
Il primo sogno, dunque, fu annotato nel 1928, da una Dolores 36enne. Quasi venticinque anni sarebbero trascorsi prima che quell’onirica corsa primaverile fino all’«inconsapevole giovinezza» la portasse ad avviare l’abitudine quotidiana a sognanti incursioni nel passato. Registrate ininterrottamente dagli anni Cinquanta fino alla fine dei suoi giorni.
Chiunque, affrontando un testo simile, pensi a un monitoraggio psicologico, a un’esperienza di autoanalisi, a un’interpretazione freudiana, si sbaglia di grosso. Se mai, si tratta dell’esercizio di scrittura di un dettato, del tentativo di traduzione di un mistero, della fedele trascrizione di un pensiero indisponibile alla volontà, incontrollabile dalla ragione, segreto anche per l’anima che lo visse con la più intensa delle passioni.
La Prato stessa dichiarava: «Ecco, dei miei sogni a me non interessa affatto il loro significato, né se gli psicanalisti vedano giusto». Ciò che le stava a cuore era piuttosto «il loro tessuto figurativo: le sensazioni, le riflessioni che li riempiono».
Sono «sogni composti di nulla – scriveva –, difficili da raccontare perché, attorno a un piccolo evento, è tutto uno scorrere di sentimenti». «Ondate di esaltazione e depressione». «Un senso di pena infinita». O di una gioia sfrenata, vissuta sempre come una discesa planata per le scale, una volata in punta di piedi, con leggerezza di rondine.
A parte le rare eccezioni di sogni realistici fatti all’alba, «sogni pezzi-di-vita», che nell’arco della vita diurna avrebbero potuto svolgersi, sono sogni altrimenti veritieri, «sogni rivelatori», «che scoprono la vita e le sue radici» a meritare la dedizione dell’autrice e a suscitare la meraviglia del lettore.
Dolores lo sapeva: a quell’attività indomabile della sua mente, agli ansiti dell’anima e alle visioni che ne agitavano il sonno doveva destinare un’attenzione speciale. Lo richiedeva «il carattere di verità – sottolineava – dei miei sogni: fantastici mai, tutt’al più venati da un senso di poesia».
Eccolo qua, un gigantesco documento di poesia. Fatto di «straccetti di porporao cotone, pezzettini d’oro o pietrucce». «Che cosa siano non lo so, io li chiamo narrazioni», rispose Dolores all’intervista rilasciata a «Il Tempo» in occasione dell’uscita di Giù la piazza. Il giornalistasupponeva: «Di romanzi avrà pieni i cassetti». E lei ammetteva: «La mia casa è talmente piena di manoscritti che è tutta un cassetto». Quella messe di scritti e appunti, oggi custoditi al Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze, messi giù su foglietti volanti, perfino sui margini delle pagine di giornale in cui ha rovistato Elena Frontaloni per curare la redazione dei Sogni, sono «l’attaccamento e lo strazio della mia vita», dichiarò la Prato.
Atormentare per tutta la vita colei che era «nata fuori legge», nata da una relazione clandestina tra Maria Prato e un ignoto avvocato calabrese, «nata sotto un tavolino», ricorda l’incipit di Giù la piazza non c’è nessuno riandando al primissimo istante di coscienza, quello in cui, nascosta in quel cantuccio, aspettava palpitante il rientro a casa dell’adorato zio Domenico, l’ulissiaco Zizì che, mezza orfana, l’aveva accolta nella dimora treiese, fu l’arcano della propria origine e nascita. L’enigma della sua provenienza e venuta al mondo. Il mistero della sua esistenza nel mondo.
«Noi non siamo mai cominciati», diceva frugando in quel baratro. «Il gancio cui si attacca l’anello della catena nessuno lo troverà» scriveva scendendo «giù la piazza» per scoprirvi: «non c’è nessuno». I Sogni però le restituivano a brandelli segmenti di quel filo cui la catena della sua vita stava appesa. I momenti poeticamente più alti della loro trascrizione sono quelli in cui, sulla rivelazione che essia tratti regalavano, torna a calare profondissima la tenebra della notte.
«Ho capito!», esulta a più riprese Dolores. «Ho sentito una cosa grande grande che rischiarava il mio cuore. Non so dire. Cose misteriose e vere, reali ed eterne». «Sognai che cos’era la morte. Ma poi la cortina si riabbassò». «Sognai che cos’era l’amore, l’unione tra due esseri, quella che
annulla la solitudine:uno spasimo lieto, puro, fresco, santo, come il sorgere di una vita». E sognò la porta misteriosa da cui si era aperta la sua vita. Una porta concreta e vissuta: «Di quel colore grigio che assume il legno bagnato dalla pioggia, asciugato dai venti, essiccato dal sole». Si trovava nel borgo arroccato sulla collina di Treia, e al di là di quel varco c’era tutto: «Tutto quello che la vita poteva darmi e non mi ha dato, c’era la cessazione del dolore».
Che uno spiraglio su quella visione le si fosse aperto in sogno fu decisivo. Non fu che uno scorcio, «una striscia verticale di paesaggio», riconosciuto una notte di dicembre del 1968. Di lì si sarebbe dispiegata come un ventaglio la distesa d’orizzonte dell’infanzia, la rosa di sensazioni dei giorni dell’innocenza, «il ritratto insaputo di quell’età che nulla poteva più testimoniare».
Eppure, l’ondata di una gioia indicibile aveva fatto montare alla superficie della coscienza ciò che pareva sprofondato nei fondali del tempo. Riaffioramento miracoloso, non impossibile. Perché, scriveva Dolores Prato forte del dono di quella visione «forse l’impossibile è tale solo perché lo accettiamo senza sfidarlo».