Recensioni / E' a oriente la città del futuro

Come saranno le città del futuro? Per saperlo basta guardare verso Oriente. Così fa Rem Koolhaas, architetto e teorico del contemporaneo, in un libro premonitore, Singapore Songlines, pubblicato in originale nel 1995. Nell’isola asiatica è sorta, meno di cinquant’anni fa, la città futuribile, effetto congiunto di un impetuosa crescita economica e insieme di una nuova forma di democrazia autoritaria. Lee Kuan Yew, uomo politico e autocrate, ha realizzato quello che Koohlaas chiama il «parossismo dell’operativo», ovvero una nuova città interamente costruita in tempi rapidi, priva di storia, e di tutti quegli archetipi spaziali che noi in Europa riteniamo necessari affinché vi sia una città: strade, viali, piazze.
Costruita con schemi tipologici che somigliano a quelli di un’immensa periferia,
Singapore smentisce la nostra inveterata idea che per generare una città vi devono essere prima di tutto dei cittadini, che la condizione di «cives» è fondamentale per costruire insieme relazioni sociali e politiche, democrazia e naturalità del vivere. Lo stile con cui è stata costruita a tappe forzate Singapore è quello «generico» che oggi vediamo applicato nelle nuove città cinesi, quelle sorte dal nulla, abitate da popolazioni fluttuanti di operaie e operai che Leslie T. Chang ha così ben descritto in Operaie (Adelphi).
In questi nuovi insediamenti umani, realizzati nel corso di pochi anni, risiedono oggi milioni di persone, uomini e donne inurbate dalle campagne circostanti, un popolo di migranti interni di oltre 300 milioni di persone. Queste megalopoli del futuro, che ricordano la visione tellurica e piovosa di Blade Runner di Ridley Scott (1982), ci lanciano un doppio messaggio, scrive l’architetto olandese: morte del repertorio urbano e genesi non-democratica.
Si tratta di un problema che alcuni filosofi hanno già sottolineato. Peter Sloterdijk parla di Lee Kuan Yew come colui che ha realizzato il «capitalismo dai valori asiatici», fondato su un’urbanistica folle, cui guardano con attenzione da almeno due decenni i dirigenti del partito comunista cinese; Slavoj Zizek, dal canto suo, ci ricorda in Berlusconi a Teheran (tradotto nell’Almanacco Guanda, n. 4, a cura di Ranieri Polese) come sin qui il capitalismo sia sempre apparso inestricabilmente legato alla democrazia; in Asia non è più così.
Il caso di Singapore è un segnale di questo cambiamento: un laboratorio semantico dove, scrive Koohlaas, «le sconcertanti questioni che caratterizzano la nostra epoca, come la coesistenza razziale, sono state esaminate prima che divenissero enormi empasse o crisi nel nostro continente». L’urbanistica è tornata a essere, dopo l’esplosione economica di Paesi come Cina, India, Brasile, un tema politico, e la città un nodo decisivo per la progettazione del futuro.
Il racconto che Koohlaas fa dello sviluppo dell’isola-megalopoli è davvero interessante: interventi di organismi internazionali comel’Onu; azione della politica locale di tipo dirigistico; applicazione della tecnica della tavola rasa; fine dell’utopia architettonica e urbanistica nata con la modernità; comparsa di architetti formati in università americane che costruiscono in Asia.
L’autore di Delirious New York (Electa) sostiene provocatoriamente che oggi l’Architettura è impossibile: «la città è un collage imperfetto: tutto in primo piano, niente sullo sfondo». Chi ha visitato le città asiatiche, da Singapore a Hong Kong, e a Tokyo, sa che si tratta di città che hanno abdicato al passato, si sono sradicate rispetto a se stesse, pensando così in grande e mescolando il lessico vernacolare a quello modernista in un ibrido che, nonostante tutto, seduce e attira proprio per la sua megalomania, per il crogiolo delle culture e delle razze, per la decostruzione di ogni linguaggio architettonico e insieme sociale.
Di fronte alle megalopoli asiatiche noi europei siamo come bambini che osservano stupefatti Disneyland: la realizzazione visiva di sogni infantili dietro a cui l’autoritarismo politico si fonde con il turbocapitalismo più spietato; il futuro appare come una regressione verso stati antichi della nostra stessa psiche. Così si presenta un libro, un vero classico, Los Angeles. L’architettura delle quattro ecologie di Reyner Banhman, capolavoro d’esplorazione di una metropoli che quarant’anni fa costituiva il punto più avanzato del nuovo urbanesimo.
Banhman, storico dell’architettura, inglese di nascita e formazione, esordisce in questo studio dettagliato della forma e della struttura visiva della città americana, dicendo che, come nel passato gli intellettuali inglesi avevano imparato l’italiano per leggere Dante in originale, lui ha imparato a guidare l’automobile per leggere Los Angeles. Città di superstrade, cavalcavia, plinti di cemento, sottopassi, nastri di asfalto, la metropolinastro è setacciata da Banhman mettendo in luce sulle mappe come lo sviluppo sia figlio dei mezzi di trasporto, prima della ferrovia poi dell’auto.
A Los Angeles ha inizio una delle caratteristiche proprie delle città postmoderne, che anche Alberto Arbasino ha narrato nei suoi viaggi negli Anni Sessanta: la fantasia ha il sopravvento sulla funzionalità. Banhman ci spiega come un hamburger ben preparato può essere un’opera d’arte visiva. A Los Angeles inizia quella che in Asia, nel totalitarismopostmoderno, è l’architettura come «assemblaggio simbolico»: edificio e simbolo sono una
sola cosa. Los Angeles e Singapore appaiono due estremi opposti, eppure complementari, della forma assunta dalle megalopoli nell’ultimo cinquantennio.
Banhman dice una cosa molto interessante che ci fa guardare diversamente anche la stessa Singapore: a Los Angeles le architetture sembrano prive di quell’angoscia creativa di stile eroico che propria del movimento moderno europeo. Le città dell’Oriente, per noi prive d’anima, non sono forse proprio così? Gli occhi con cui le guardiamo sono ancora gli occhi del passato, carichi di eroismo e di angoscia, sentimenti della nostra vecchia e tramontata modernità? Probabilmente sì.