Recensioni / La post-città

Quando uscì, nel 1972, il libro Learning from Las Vegas (Imparare da Las Vegas") mise a soqquadro l'architettura. E non solo, abituati tutti a considerare con più patente disprezzo la giovane città americana cresciuta impetuosamente nel deserto fra alberghi e casinò. Che cosa si poteva mai imparare dal luogo delle crapule intorno ai tavoli da gioco, del divertimento pacchiano, del kitsch e dell'orrore architettonico? Dalla città che si forma senza piano, fatta di insegne luminose e cartelloni pubblicitari? Nulla. Ma non così per Denise Scott Brown, architetta e urbanista sudafricana, e pe rsuo marito Robert Venturi, architetto già affermato, allievo di Louis Kahn e autore, un paio di anni prima, di un testo molto fortunato, Complexity and Contradiction in Architecture (Venturi sarà poi vincitore del premio Pritzker nel '91). Learning from Las Vegas, scritto dalla Scott Brown, da Venturi e da Steven Izenour torna in una nuova edizione italiana pubblicata a cura di Quodlibet e della rivista Abitare (pagg. 230, euro 24). Ne parliamo con Scott Brown e Venturi.
 
Da allora sono trascorsi quarant'anni. Gli Stati Uniti el'Europa sono pieni di città che si disperdono casualmente nel territorio e che qualcosa, forse, hanno imparato da Las Vegas. Non è così?
«Noi suggerivamo che gli architetti potessero apprendere da questa città una lezione sul simbolismo, sulla capacità comunicativa dell'architettura e sull'uso della fantasia e della luce per creare strutture piacevoli che attirassero persone».
 
Ma la fine della città compatta, l'insorgere dello sprawl, la dispersione abitativa, sono o no ispirati a Las Vegas?
«No. Se le città in Italia, in Cina o India (sicuramente poche) assomigliano a Las Vegas è perché rispondono a condizioni sociali, economiche o naturali simili a quelle di Las Vegas. Tutte le città, anche quelle prodotto di un'espansione incontrollata, si sviluppano subendo l'influenza di questi fattori – il deserto a Las Vegas o un patrimonio culturale che conta migliaia di anni in Cina. E poi un'altra cosa: lo sprawl ha una forma, nonè il caos. Il caos è un ordine che non abbiamo ancora compreso».
 
Quanto è importante Las Vegas nella storia dell'urbanistica?
«Una delle lezioni della storia è che le lezioni della storia cambiano per ogni generazione. Tutte le generazioni trovano nel repertorio del passato quel che è importanteperloro. LasVegashamolto meno da mostrare rispetto alle città dell'Europa medievale o all'antica Roma. Ma fu di grande interesse per noi perché sembrava una città nella sua infanzia, i cui neon imponevano la loro luce nel deserto. Il ruolo del simbolismo in architettura ci ha ricondotti a Roma dove entrambi eravamo stati negli anni Cinquanta, ma con occhi diversi».
 
Quanto è cambiata Las Vegas da allora a oggi?
«Nel 1965 assistemmo all'espansione della Route 91, la Strip. Quella strada era l'apoteosi dei neon, archetipo del commercio suburbano le cui insegne policromatiche si innalzavano contro il cielo blu e deridevano i sogni degli architetti. "La odi o la ami?", ci chiedevamo l'un l'altro. Siamo tornati nel 1997. Gran parte dei neon erano scomparsi, sostituiti dall'illuminazione più soffusa Led, i piazzali pe ri parcheggi erano stati rimpiazzati con le scenografie di Disneyland. L'impianto comunicativo era stato risucchiato e la citta aveva poco da insegnarci. La Strip era diventata un elemento urbano convenzionale. Grandi alberghi avevano sostituito i parcheggi. La nuova Las Vegas, massificata a ritmi vertiginosi, era completamente differente dalla non-città degli anni Sessanta. E aveva un aspetto ottocentesco».
 
Anche Las Vegas si era normalizzata. Ma è possibile pensare che cartelloni pubblicitari e Insegne luminose siano più importanti di una piazza in cui la gente possa incontrarsi?
«A Los Angeles le persone guidano lungo autostrade costellate di cartelloni pubblicitari dirigendosi verso luoghi dove non ce ne sono e dove essi desiderano passeggiare. Perché dobbiamo scegliere tra cartelloni pubblicitari e luoghi di incontro? Perché non entrambi? Ogni cosa ha il suo ruolo e il concetto di incontro deve includere significati letterali e virtuali e diverse forme di comunicazione. L'architettura non può determinare l'incontro fra le persone, ma può rimuovere le barriere e rendere i suoi luoghi attraenti. Noi architetti dobbiamo capire le molte possibilità che ci sono di incontrarsi e mettere la nostra creatività e immaginazione per realizzarle».
 
Molti sostengono che la crescita casuale e l'assenza dl pianificazione mettano le città nelle mani degli speculatori facendole diventare sempre più private. Siete d'accordo?
«Lecittà prodotto dispeculazione possono essere rozze e grossolane. Ma noi architetti abbiamo una lunga esperienza di pianificazione urbanistica avvertita come prepotente, ossessivamente ordinanice, socialmente disastrosa e noiosa. Possiamo invece pensare a delle città in cui il disordine vitale porti bellezza. Nell'urbanistica di oggi sono necessari scambi fra pubblico e privato, connessioni che crescano dal di dentro e non imposte dall'alto e piani che siano densi di pensiero, complessi, democratici e realizzati con tocco leggero. Questo potrebbe richiedere diverse generazioni per realizzarsi. In una città del genere c'è abbastanza spazio per la volontà forte di grandi architetti? Certo, ne abbiamo bisogno, ma non devono comportarsi da bulli».
 
Las Vegas può essere modello della città del futuro?
«Con la parola modello si intende la base per prevedere il futuro della città o un paradigma da usare per un progetto? In entrambi i casi la risposta è no. Negli anni Sessanta noi vedemmo in Las Vegas un archetipo, non un prototipo. I fenomeni occorrevano lì in completa solitudine, non corrispondenti a modelli precedenti. Per noi non era né un kit di istruzioni per le città del futuro né un termine di paragone, ma un esempio che gettava luce su certi aspetti dell'urbanesimo. "Imparare da" e "imitare" sono concetti differenti».

UN SAGGIO E LE POLEMICHE Denise Scott Brown approdò a Las Vegas coi suoi studenti dell'Ucla nel 1965 e poi nel 1968, convincendo il marito Robert Venturi a seguirla. Learning from Las Vegas fu il frutto di quelle indagini. Il libro analizzava, senza scomunicarla, la malfamata città del vizio, «una città che spavaldamente sembrava fare a meno non solo degli architetti, ma dell'architettura in generale», scrive Manuel Orazi nella postfazione alla traduzione italiana. Las Vegas cresceva per accumulo di oggetti fastosi e improbabili che si accatastavano sui due lati della Route 91, frutto di speculazione sulle aree. Era l'esempio di come la funzionalità e la razionalità predicate dal movimento moderno potessero infrangersi contro l'irrompere di gusti e di consumi, contro la potenza del mercato. Il libro provocò molte reazioni e Scott Brown e Venturi vennero accusati di snobismo, di apologia del disordine, di giustificare e non solo di studiare.