Se oggi un architetto proponesse di “imparare da Dubai” si solleverebbe
un brusio, non sarebbe però uno scandalo. Nel 1972 invece, quando fu
pubblicato il libro Learning from Las Vegas, il mondo degli
architetti ne rimase sconvolto e la storia dell’architettura deviò il
suo corso. Adesso che tutto ciò che c’era da apprendere da Las Vegas è
patrimonio comune, viene proposto in Italia quel leggendario libro di
Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour
Imparare da Las Vegas, edito dalla casa editrice Quodlibet e curato da Manuel Orazi.
Learning from Las Vegas è considerato la Bibbia dell’architettura
postmoderna, il manifesto di una nuova generazione di architetti che
voltava le spalle all’esperienza del Movimento Moderno, dava l’addio a
Le Corbusier, a Mies van der Rohe e a Gropius e andava a passeggiare per
la Strip di Las Vegas, cercando un modo inedito di concepire gli spazi
urbani, le forme, e il linguaggio simbolico dell’architettura. Da
allora, non c’è testo che si occupi di architettura, letteratura,
filosofia o arte postmoderna che non si muova da quel libro cruciale. La
provocazione dei tre autori rappresentò una sfida altissima e il loro
lavoro ha lasciato un’eredità culturale incalcolabile. Las Vegas
rappresentava allora il concentrato di disordine che ogni città cercava
di esorcizzare. Era la città dell’eccesso, del peccato e della mafia, un
caotico accumulo di casinò e hotel privo di un disegno complessivo, e
assediato dal deserto del Mojave. Il vizio dilagava e gli edifici stessi
sembravano incarnare l’unico valore di quell’inferno lampeggiante: il
denaro. Cosa poteva mai venire di buono dall’epicentro dell’immoralità?
Venturi, la Brown e Izenour volevano penetrare meglio e senza pregiudizi
quel fenomeno di architettura euforica, e alla fine proposero
un’analisi avalutativa del loro viaggio: «non è Las Vegas il soggetto
del nostro libro, ma piuttosto il simbolismo della forma
architettonica».
Il loro scopo non era quello di cantare un elogio di
Las Vegas, quanto quello di dare il giusto valore al simbolismo
dell’architettura che lì si manifestava in tutta la sua potenza. In Imparare da Las Vegas
motel, drive-in, distributori, le tipiche wedding chapels e le
gigantesche illuminazioni vengono studiate e catalogate come «fenomeno
di comunicazione architettonica». D’altra parte, che le città generino
dei messaggi era una convinzione a cui era giunto già Roland Barthes,
che scriveva: «La città è un discorso, e questo discorso è realmente un
linguaggio», e dello stesso avviso erano d’altronde anche altri
semiologi come Umberto Eco o Jurij Lotman. Nessuno però aveva dedicato
uno studio sistematico alle forme vernacolari dell’architettura e aveva
notato che sulle highway americane, gli enormi cartelloni pubblicitari
erano intanto diventati l’architettura stessa del paesaggio. Per
l’architettura della persuasione e del commercio, che richiamava
l’occhio del guidatore, edifici e insegne coincidono, tanto che a Las
Vegas «se si togliessero le insegne, non ci sarebbe più “luogo”».
La grande invenzione (involontaria) di Las
Vegas, che ha reso il suo studio approfondito un testo seminale per il
postmoderno, riguarda però certamente l’eclettismo degli stili fusi in
questa città e la totale mancanza di gerarchia tra cultura alta ed
estetica popolare. Colonne greche, neon ritorti, mosaici paleocristiani,
lastre barocche, chioschi a forma di hamburger, statue greche, Bauhaus
hawaiiano
e scritte anni Trenta collassano tutti in un’unica cifra
stilistica che frulla la storia dell’arte rendendola un’esperienza
ludica, vertiginosa, priva di contesto e di differenze. Chi frequenta
oggi Las Vegas sa bene che questa combinazione di stili prosegue
radicalizzandosi: oggi piramidi egizie svettano accanto a gondole
veneziane, e su Las Vegas Buolevard i colonnati romani affiancano
esoticissime pagode. Questa combinazione di epoche e stili sarà
precisamente il tratto che distinguerà, in letteratura, gli scrittori
cosiddetti postmoderni. Così come avviene a Disneyland, infatti, anche
nelle pagine degli scrittori postmoderni è impossibile segnare confini
precisi tra le citazioni, tra le epoche, perché tutta la tradizione è
riutilizzata liberamente all’interno di un testo.
Learning from Las Vegas provoca ancora oggi al lettore la
sensazione di un viaggio in una macchina del tempo molto simile agli
sbalzi temporali di cui si occupano i tre architetti. Gli autori hanno
costruito infatti il libro con una serie di foto in cui si confrontano
la cattedrale di Amiens e il Golden Nugget di Las Vegas, l’arco di
Costantino a Roma e il motel Howard Johnson’s della Virginia: nelle
pagine si va dall’antica Roma a Versailles in paragrafo. E non è un caso
che nei ringraziamenti stiano insieme Michelangelo, i Manieristi
inglesi e Frank Lloyd Wright.
Senza l’ironia giocosa e irriverente di Bob Venturi non ci sarebbe stata
la magia visionaria di Frank Ghery e sarebbe difficile immaginare le
utopie globali di Rem Koolhaas. Senza quel testo non avremmo
interpretato fino in fondo i mondi letterari e allucinati di Thomas
Pynchon, i “rumori bianchi” di Don DeLillo, i romanzi disorientanti e
senza mappa in cui si muovono i personaggi di Tom Wolf, Donald Barthelme
o James Ballard. Tutta l’opera di Bret Easton Ellis è legata alle
highway e alle metropoli, fin dal memorabile incipit del suo primo
romanzo, Meno di zero, che andava subito dritto al punto: «La gente ha paura di immettersi nel traffico di Los Angeles».
Learning From Las Vegas comparve in due edizioni diverse, la
prima delle quali di grande formato. In Italia era stata stampato da
Cluva editrice nel 1985 ma è rimasto per tutti questi anni un libro
praticamente introvabile. Il curatore di questa nuova edizione (che
ripropone la seconda edizione americana del volume), constata come ormai
questo libro nel frattempo sia diventato un «vero e proprio classico
della letteratura architettonica del Novecento».
Imparata la lezione di Las Vegas, per cercare oggi un’architettura che
desti quel senso di sorpresa che quarant’anni fa destava lo Strip di Las
Vegas bisogna certamente guardare alle metropoli orientali. Il kitsch e
la grandiosità, la bizzarria e la monumentalità sono le parole d’ordine
che fanno sviluppare Singapore, Dubai, Doha o Abu Dhabi. Gli architetti
non smettono mai di dare lezioni alla fantasia e non smettono mai di
imparare. Come dice Venturi: «noi architetti possiamo imparare da Roma,
da Las Vegas, ma anche guardandoci attorno ovunque ci capiti di
trovarci».