Non è un’autobiografia (ancorché solo un frammento). O forse sì, ma di una foggia così rara da non essere riconoscibile (momenti di vita familiare che lumeggiano momenti di storia nazionale), tali e tanti i cattivi esempi che ci sommergono, i girotondi nel tempo ingiallito, sul filo del rimpianto, carillon estenuati ed estenuanti. Ad animare L’ascensore al Pincio di Gaspare De Caro, come rischiara nella postfazione Mario Lunetta, è «uno humour illuministico-materialista». Là dove l’aggettivo materialista andrebbe sostituito con arido. E’ l’aridità il sigillo di questa «operetta», discendente per li rami, Gobetti («L’aridezza rappresenta insieme la mia passività e la mia misura, la serenità e l’ironia») e Carlo Levi (che elogia «il rifiuto di lasciarsi andare a ogni compromesso, la capacità di andare sino in fondo, senza sentimentalismi»). Gobetti (e Levi), non a caso. Un mondo che Gaspare De Caro (tra gli artefici dei «Quaderni Rossi») ha avuto occasione di esplorare. In particolare ha firmato una prefazione di La Rivoluzione Liberale, saggio sulla lotta politica in Italia, bacchettata da Paolo Spriano e da Norberto Bobbio. (Se il messaggio del prodigioso intellettuale torinese - ecco in che cosa consiste, o consisteva, la discordia - ha una valenza esclusivamente morale o meno). L’ascensore al Pincio segna il transito di Gaspare De Caro dalla saggistica alla letteratura? Piuttosto si muove (questa l’ambizione) nel solco della «totalità» leopardiana, il pensatore e lo scrittore intrecciati. Come non ricordare Servabo di Luigi Pintor? «...solo molto più tardi capii che mio padre la sua prova di eroismo l’aveva data, che non me ne ero accorto e che c’è una banalità dell’eroismo che ne annulla la percezione, così come la banalità del male autoassolve gli assassini». Ruotano intorno allo spettatore di Charlot, una figura naturaliter moraviana (il Moravia dei Racconti romani) i sei momenti dell’Ascensore. Una sorta di viaggio à rebours, che esordisce nell’inverno del ‘43 (è appena trascorso, mai trascorso, il 16 ottobre raccontato da Giacomo Debenedetti). Un laico «pellegrinaggio di recherche», una galleria di caratteri «al centro delle cose» (di una pinguedine barocca è il Consigliere che suggella magistralmente la parabola), un inventario di atmosfere classiche, da Petrolini a De Sica, alle tavole di Beltrame per la Domenica del Corriere. Classica è la lingua di Gaspare De Caro, di un respiro qua e là gaddiano, lui che non esita a, va da sé elegantemente, efferata eleganza, commiserare la «nostra cultura postclassica». Non dà forse del tu agli illustri antenati? «...certi timballi di riso bollito, austeramente immuni da condimenti animali e vegetali, insapori e inodori come un inno sacro del Manzoni, però nella circostanza salvifici come le quaglie e la manna dell’Esodo». Gaspare De Caro
L’ascensore al Pincio, Quodlibet, pp. 72, Euro 11