Recensioni / Sogno o son Dolores?

Chi ricorda Dolores Prato, (esordiente ottantottenne nel 1980 con "Giù la piazza non c'è nessuno"), conosce il fascino inimitabile di questa autrice che unisce una precisione lessicale virtuosistica a una memoria maniacale. Più che ad altri scrittori, la Prato assomiglia al Funes di Borges, che una memoria prodigiosa costringeva a una vita fatta solo di ricordi. Dolores invece viveva, pensava, soffriva. Dormiva e, mentre dormiva, sognava, e al risveglio scriveva. I suoi "Sogni", pubblicati ora da Elena Frontaloni per Quodlibet (pp. 826, e 34, introduzione di Gabriele Pedullà) mostrano la stessa precisione lessicale, la stessa cura maniacale del dettaglio che affascina nei suoi romanzi autobiografici e non ("Campane a Sangiocondo").
Il primo sogno è del '28, gli altri vanno dal '50 all'82, l'anno prima della morte. Racconti dettagliatissimi, dove ogni virgola ha un peso calibrato al millesimo, eppure sconclusionati nella trama come sono, appunto, i sogni, anche quelli di una scrittrice geniale. Tra gatti e preti, strade di Roma e ricordi della valle del Treia, scrittori che parlano dei massimi sistemi e comari che discutono di problemi pratici c'è tutto il mondo della Prato. Ma all'ordine ossessivo dei romanzi si contrappone un caos da bazar su cui incombe una presenza che non ammette ritratti: "Ho sognato come si muore, è stato il sogno più profondo della mia vita. Non l'ho scritto subito per scriverlo meglio, e l'ho perduto".