Recensioni / Rinascimento + Ruscha: rappresentare Las Vegas

In pieno ‘68 gli studenti Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour mappano la capitale al neon come modello «antimodernista» di architettura contemporanea: un paesaggio di simboli nello spazio come le antiche facciate a Roma e Firenze

Torna in libreria un classico ed è doveroso domandarsi perché. Nel caso di imparare da Las Vegas, uno dei più celebri «trattati» architettonici del secondo Novecento, si potrebbe aggirare il problema ricordandone l'assenza plundecennale dai cataloghi in lingua italiana, ancor più grave se messa a confronto con la fortuna critica del libro, tra i più controversi e citati della letteratura architettonica e urbana degli ultimi quarant'anni. Ma la nuova edizione del volume di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour che inaugura la nuova collana Quodlibet «Abitare» (a cura di Manuel Orazi, traduzione di Maurizio Sabini), prediligendo il testo al pur ricco regesto di immagini, ci consente di riprendere le fila di alcuni ragionamenti che pure girano intorno alla stessa domanda, oggi come allora: cosa c'è da imparare da Las Vegas?
Che Las Vegas fosse una scusa per affrontare uno spettro più ampio di questioni era già chiaro al gruppo di studenti di Yale che, nell'estate del 1968, muovono alla volta di quella sorta di miraggio urbano nel mezzo del deserto del Mojave, in Nevada, guidati dai loro professori. Robert Venturi e Denise Scott Brown, dal canto loro, avevano già ampiamente preparato il campo visitando la città diverse volte e soprattutto scrivendo qualche mese prima su «Architectural Forum» il celebre pezzo «Un significato per i parcheggi A&P, ovvero Imparare da Las Vegas», dall'incipit folgorante: «Imparare dal paesaggio esistente è, per un architetto, un modo di essere rivoluzionario». Si trattava in sostanza di guardare con occhi sgombri da pregiudizi alla rappresentazione dell'America più viziosa, ma vitale: quella dei casinò, dei motel, delle stazioni di servizio e soprattutto della strip più famosa degli Stati Uniti, spuntata dal nulla nel 1905 e, dopo la guerra, accreditatasi come il tempio nazionale del gioco d'azzardo e del divertimento «per adulti'. In sostanza la tesi della ricerca era di accettare la sfida dell'archetipo della strada commerciale, che a Las Vegas si presentava nella sua forma più pura, eretta nel deserto, cioè senza alcun sostrato storico e dunque apparentemente senza quei caratteri che fanno di un agglomerato edilizio una città.
Ma vi era di più. Nel sistema delle insegne, dei segnali lampeggianti, delle facciate luminose e colorate, il gruppo di Yale riconosceva i caratteri di un modo di intendere l'architettura «dimenticato» lungo tutta la stagione modernista: «un paesaggio di simboli nello spazio piuttosto che di forme nello spazio», una rivincita della dimensione iconografica contro le forme astratte e mute degli epigoni dello stile internazionale. Imparare da questo significava tornare indietro niente meno che alle facciate delle chiese gotiche, ma soprattutto alla Roma e alla Firenze rinascimentali, dove le facciate dei palazzi nobiliari potevano essere descritte come involucri decorati («decorated shed») ante litteram, ovvero strutture convenzionali, in grado di rispondere al meglio al programma funzionale, ma arricchite da un sistema di simboli che comunicano direttamente il loro significato e il loro scopo. «Il simbolismo dimenticato della forma architettonica» è infatti il sottotitolo che, dalla seconda edizione del libro (1977), chiarisce il vero obiettivo della ricerca. Allo stesso tempo, però, lo studio si spingeva oltre la semplice constatazione di questo peculiare fenomeno urbano, ponendosi il problema di come osservarlo.
Va da sé che la realtà americana a cui guardano Venturi e Scott Brown non è più quella del new deal, quella nitida e trasparente delle strutture in ferro e vetro di Mies e SOM della east coast, ritratta rigorosamente in bianco e nero nelle fotografie di Ezra Stoller; ma non è neppure quella concettuale, sofisticata e pop dei Warhol e degli Oldenburg   che pure appartengono ai riferimenti di V&SB. È piuttosto quella popolare e «a bassa risoluzione» di Ed Ruscha, al quale fanno visita con gli studenti proprio durante la ricerca su Las Vegas, rimanendo influenzati dallo sguardo analitico dell'artista del Nebraska del quale «copiano», in particolare, la tecnica della famosa sequenza fotografica di Every building on the Sunset Strip. Come nel libro di Ruscha il paesaggio urbano di Los Angeles era ridotto a una piatta sequenza lineare di facciate anonime, senza gerarchia e senza criteri di selezione – se non quello di inserirle tutte –, così in Imparare da Las Vegas la città è descritta per lo più attraverso un’accumulazione di rappresentazioni bidimensionali: schemi, diagrammi e tabelle che catalogano i nuovi materiali della città e ne mappano l’impatto sulla costruzione dello spazio urbano.
E qui si arriva al punto. Annullata tanto dalla messe di segnali e insegne luminose che dalla castità delle strade carrabili e dei grandi parcheggi di servizio, a Las Vegas ciò che va in crisi è proprio la categoria dello spazio. L'ineffabile «dio» dell'architettura moderna, la sostanza «progettata dagli architetti e deificata dai critici» per riempire quel vuoto creato dalla rimozione degli apparati simbolici, a Las Vegas non ha più ragione di essere. Nel paesaggio urbano percorso in automobile a 100 Km/h lo spazio non è più una dimensione operabile del progetto architettonico; «qui una sola immagine vale quanto un migliaio di forme». E oggi che possiamo leggere queste pagine nella giusta prospettiva storica, il dispositivo analitico «Imparare da Las Vegas suona tutto come un de profundis delle ultime speranze «riformiste» che ancora covavano in seno agli ultimi epigoni del modernismo ufficiale, forse persino al di là delle aspettative e degli obiettivi della coppia di architetti di Philadephia.
Se infatti da un lato Imparare da Las Vegas prosegue nel solco della critica all'esausto funzionalismo della tarda modernità lanciata da Robert Venturi qualche anno prima con il suo «Complessità e contraddizioni nell'architettura», dall'altro introduce un ingrediente decisivo che manda in panne la macchina architettonica: la città. E questo, a ben vedere, succede da sempre, giacché la spazializzazione dei sistemi di relazione urbani nella storia delle città si misura con dispositivi che vanno verso la progressiva smaterializzazione dei loro limiti fisici, costringendo a ripensare il significato stesso dei manufatti e dunque il loro ruolo: all’inizio i nuclei urbani erano definiti da mura di cinta e da strutture fortitificate, in seguito da strade e piazze, quindi da strutture sempre più aperte sino allo sprawl e allo spazio di percorrenza delle automobili, delimitato da linee bianche a terra punteggiato da segnaletica bidimensionale.
Proiettato all'oggi, questo progressivo, incessante primato dei sistemi di comunicazione nello spazio rivela la dimensione sempre più residuale, immateriale, virtuale dello spazio stesso, che tuttora è la cifra della città contemporanea, particolarmente quella in cui la modernizzazione è più spinta. Per questo tutti quei caratteri di Las Vegas che potrebbero essere inscritti nell'immaginario postmoderno, non vanno visti come effetti collaterali della modernizzazione, ma la loro lineare, inevitabile conseguenza. Tutto questo ha in Las Vegas il suo archetipo – sia chiaro, la Las Vegas degli anni settanta, molto diversa da quella odierna, come spiegano gli stessi Venturi e Scott Brown nella postfazione di questa edizione –, giacché, come aveva sintetizzato perfettamente Tom Wolfe, «Las Vegas è la sola città al mondo il cui profilo non è fatto di edifici, come New York, nè da albri, come a Wilbraham, Massachussets, ma da insegne».