Recensioni / L'appuntamento mancato


“Qualora dovesse risultare confermata la nostra ipotesi di un’implicazione politica costitutiva nella meditazione heideggeriana sull’origine, avrebbe senso parlare, per la filosofia di Heidegger, di una vera e propria originarietà di una dimensione del politico” (p. 12); con questo auspicio si apre il lavoro di Ferdinando G. Menga, affiancato ad altri due obiettivi: uno “prosecutorio”, ovvero lo sviluppo degli elementi già presenti in Heidegger cercando di andare oltre il suo pensiero, e uno “critico”, ovvero il tentativo di sviscerare i motivi della mancata esplicitazione da parte del filosofo del contenuto politico nella sua riflessione filosofica, l’“appuntamento mancato” che dà il titolo al saggio.
Il primo tratto del saggio è utile per introdurre la dimensione fenomenologica in Heidegger. Ciò che appare nell’esperienza si dà “in quanto qualcosa” ed è frutto di una mediazione di un insieme di significati. Se ciò che si manifesta per significare è mediato, quella mediazione deve relegare l’espressione di ciò che si manifesta “in quanto qualcosa” a un modo contingente e non assoluto. È l’espressione il concetto cardine di queste pagine: “l’espressione significa sì un avvenimento che crea significato (azione), però non a partire da sé, bensì a partire da un appello estraneo (passione) a cui risponde realizzandolo e che, allo stesso tempo, solo essa fa emergere allorché gli risponde” (p. 44). Questa articolazione simbolica di Heidegger fa sì che la vita, “in quanto qualcosa”, rimandi sempre a una variazione continua dei significati che le danno significato, ciò che il nostro autore chiama “istituzione politica dei significati”. È qui il nucleo e l’azzardo, ben gestito e sviluppato, della tesi di Menga: l’autore ci ricorda che non c’è un discorso esplicitamente politico nel giovane Heidegger, ma proprio leggendo Heidegger nella sua dimensione simbolica, nell’articolazione dell’espressività, si possono avere due chiavi d’accesso al lavoro heideggeriano. Una chiave di lettura, che l’autore indica come centrifuga rispetto alla speculazione heideggeriana, vede “gli ordini del significato” essere inseriti in una totalità che tratterebbe più della propria origine ontologica piuttosto che dell’originarietà della mediazione significante. L’altra chiave di lettura è più importante per l’autore: “una istituzione politica dei significati stessi, che si muove secondo la logica di un’espressione creatrice” (p. 55). Un’istituzione che pone la fatticità della vita e la sua necessaria mediazione al centro dell’implicita politica heideggeriana: “il mondo non possiede originaria unitarietà e definitezza, non essendo altro che lo spazio di apparizione plurale e la posta in gioco, altrettanto plurale, di una interazione fra gli individui” (p. 62), il mondo è lo spazio della contingenza in cui l’esperienza permette il politico. Anche nel caso del concetto di mondo non ci si deve accontentare di un’idea unitaria. Ciò che possiamo chiamare mondo in Heidegger, spiega Menga, è l’interazione politica di tre modi di fare esperienza del mondo: mondo-ambiente (Umwelt), mondo collettivo (Mitwelt) e mondo-del-sé (Selbstwelt) (cfr. pp. 73-81).
È nelle parti terza e quarta che il delicato lavoro di Menga di far risaltare il politico in nuce nel giovane Heidegger appare in tutta la sua forza. Il perché dell’appuntamento mancato è ben descritto utilizzando come reagente la filosofia politica di Hannah Arendt e, appunto, il filosofare dell’Heidegger maturo: la riflessione politica di Arendt rende esplicita la politicità della dimensione dell’espressione che il giovane Heidegger aveva teorizzato. Menga trova nella filosofa politica di Arendt quei legami e quelle divergenze che l’inespressa politica di Heidegger non ha avuto modo di sviluppare. Se è vero che nell’espressione creatrice il primato del politico è necessario e che questo primato è dovuto all’essenza del mondo (nella tripartizione dialettica descritta dall’autore), le divergenze tra Arendt e Heidegger si trovano nei caratteri dell’antipoliticità di Heidegger, in un suo deciso sviluppo della dimensione dell’‘autobastevolezza’ (Selbstgenügsamkeit) della vita  del singolo e, all’opposto, nella partecipazione attiva e plurale della dimensione politica arendtiana: “certamente, la differenza di non poco conto tra l’impostazione arendtiana e quella heideggeriana risulta nel fatto che, nella prima, il rilevamento del carattere politico si pone come compito esplicito della riflessione, mentre nella seconda resta solo implicito” (p. 113). In Hannah Arendt il potere politico si sviluppa solo nella pluralità attiva degli uomini, nel rapporto tra Mitwelt e Umwelt; o per utilizzare la terminologia arendtiana: in-between. Arendt non può concepire un mondo che si dà “in quanto qualcosa”, perdendo però la sua capacità prospettica plurale, nella sua filosofia riesce a mantenere unitarietà del mondo e pluralità dei soggetti che concorrono a formare l’apparire del mondo stesso. Così Menga: “il mondo, come sfera d’apparizione comune, si articola dunque come spazio diastatico di una condivisione, e ciò nel doppio senso del termine: con-divisione come tratto di congiunzione nella divisione e con-divisione come spazio di disgiunzione nell’unità” (p. 119). È evidente che la dimensione dell’‘autobastevolezza’ di Heidegger non può che divergere dall’intento politico di Arendt, nel primo la singolarità basta a sé e si richiude a un’apertura al mondo politico plurale, mentre nella seconda la singolarità e la sua contingente presenza è condizione imprescindibile per una differente ed espressiva pluralità nell’agire politico. In questo contesto filosofico il potere si sviluppa solo nella comunità delle singolarità contingenti, nel loro agire comune, non nel passaggio da singolarità a singolarità (come può essere un comando, o l’obbedire a un comando); conseguente a questa dinamica, le possibili difficoltà che una democrazia così diffusa mette in chiaro, dimensione politica “irriducibilmente contingente e storica”, gestione diretta o indiretta del potere democratico, democrazia gestita dalla rappresentanza, pericoli di oligarchia, sono ben calibrate e descritte nei paragrafi centrali che riguardano Arendt. È nel paragrafo 3.1 (p. 162) che si può notare quanto il politico in nuce di Heidegger sia particolarmente potente anche nella sua particolarissima inespressività: Lefort, Rousseau, Nancy, Derrida, Arendt, Waldenfels, Abensour, i filosofi che devono essere sfruttati per chiudere quel pensiero in una gabbia teoretica coerente.
La domanda principale del quarto tratto del saggio di Menga è la seguente: “se il primato del politico, dischiuso dalla dimensione dell’espressione, si rivela così fondamentale e irrinunciabile, come si spiega il fatto che Heidegger ne manchi la tematizzazione specifica?” (p. 176). Il problema principale sta tutto nell’espressione di quel carattere politico che contraddistingue la dimensione politica dell’uomo. Chi o cosa si esprime? Un uomo, una collettività, intesa come unità o come unione di singolarità contingenti? Chi si rappresenta nel politico heideggeriano? Il discorso di Menga torna all’ ‘autobastevolezza’ che permette a Heidegger di “rivolgersi all’unico luogo in cui tale articolazione [l’esperienza storica e contingente, ndr] sembra poter trovare effettivo riscontro” (p. 188). Il rivolgersi di Heidegger al mondo-del-sé chiude di fatto un’apertura al politico, inteso come interazione plurale, sfera alla quale Heidegger attribuisce “i caratteri della derivatezza e della devianza” (p. 191).

Intense per definizione e per criticità le ultime pagine del saggio; pagine che concludono con un rilancio allo studio del politico in Heidegger come “una sorta di Holzweg ante litteram”.