Recensioni / Vita notturna di Perec sognatore

Che cosa sono i sogni se non la nostra vita (notturna) quotidiana? Che cosa significa trascriverli uno in fila all'altro se non scrivere la propria biografia «parallela», una sorta di autobiografia onirica the rimanda di continuo a ciò che ci accade o ci accadde o ci accadrà nello stato di veglia? Per quattro anni, dal maggio '68, mese emblematico dei «sogni parigini», all'agosto del '72, Georges Perec ha riportato su carta i suoi sogni e li ha poi raccolti in un libro che ha per titolo La bottega oscura, pubblicato ora per la prima volta in Italia da Quodlibet. Il lettore potrà domandarsi: chi mi garantisce che questi 124 sogni siano veramente i sogni dello scrittore e non racconti abortiti rimasti a lungo nel cassetto? Non è forse vero che uno scrittore tende sempre a trasformare la sua vita, ivi compresi i sogni, in un racconto? E non è altrettanto vero che la trascrizione del sogno, una volta desti, comporta inevitabilmente il «tradimento» del sogno stesso?
È indiscutibile che La bottega oscura tragga origine da «fonti oniriche», prova ne sia che alcuni sogni sono dichiaratamente autocensurati, ma è difficile credere che il cofondatore dell'Oulipo (in italiano: Officina di letteratura potenziale), l'uomo che è riuscito a scrivere un romanzo di 300 pagine (Lo disparition) senza mai utilizzare parole contenenti la lettera E, qui abbia rinunciato adivertirsi con il lettore o perlomeno con il suo psicanalista, Jean-Bertrand Pontalis, al quale quei sogni sottopose. «Il mio analista – confesserà anni dopo Perec, come riportato nello straordinario apparato critico a cura di Amigoni – non prese in considerazione questi racconti: erano impacchettati con troppa cura, troppo levigati, troppo puliti, troppo chiari nella loro stessa stranezza». Perec, dunque, è il primo a chiamarli «racconti», non resoconti, I nessi acausali, d'altronde, sono quelli che organizzano i sogni, il linguaggio «narrativo» è il medesimo che tutti noi riscontriamo ogni volta che sogniamo: il discorso è sempre al presente, spuntano oggetti e persone che vengono vissuti come altri oggetti o altre persone, abbondano i giochi di parole («Che vi succede Vittoria? Siete disfatta!»), si sogna di svegliarsi ma si resta nel sogno, emerge alla lunga una ricorrenza di temi (il senso di angoscia, l'intervento della polizia, l'esperienza dei campi di concentramento, l'essere nudi, salire o scendere scale, il teatro risultano i più frequenti).
Perec sogna di sé e, inevitabilemnte, delle sue opere. In uno dei sogni più lunghi e articolati, Il ritorno, una donna che lavora come piastrellista chiede al «sognatore» se la terza edizione di Le cose (il suo primo romanzo, ripubblicato in Italia da Einaudi) sia già uscita, lo ringrazia per averlo scritto e gli suggerisce di farne anche «una traduzione per balbuzienti»; successivamente il protagonista del sogno cerca la sua camera in una villa dove anni prima abitava con molti amici, convinto di trovarvi – guarda caso – Un uomo che dorme, altro capolavoro di Perec recentemente pubblicato da Quodlibet. E allora ci si rende conto che anche i due romanzi «sognati» parlano di sogni. Le cose del Grande Sogno del consumismo anni 60, un sogno ad occhi aperti che spinge una giovane coppia parigina a identificarsi con gli oggetti, fino a «foderare» interamente la propria vita con il solo desiderio di possedere cose. L'uomo che dorme, viceversa, sogna un'altra vita, libera da convenzioni e costrizioni. Ma tutti, sempre, nel sonno come nella veglia, si muovono con la libertà, la leggerezza e l'ironia che Perec, come solo pochissimi altri, riesce a trasmettere.