Recensioni / Fase Rem della città

Un’idea chiara di come si vorrebbe il mondo. Così un grande maestro dell’architettura come Giancarlo De Carlo definiva la propria attività – non solo professionale, anche e soprattutto intellettuale. E aggiungeva che di architettura, come di urbanistica, si può discutere in due modi: o come se fosse un’attività autonoma che si definisce da sola, attraverso quel che produce con gli strumenti della propria specializzazione (quindi i suoi oggetti: gli edifici e le opere); oppure come un sistema di comunicazione e di espressione che si può decifrare soltanto se si conosce il contesto in cui sono emessi e ricevuti i messaggi (quindi i processi di interrelazione con le vicende umane). Entrambi i metodi, se di metodo si può parlare, forniscono indicazioni importanti. Ma il secondo porta più lontano. Proviamo infatti a pensare all’esplosione economica delle nuove potenze come Cina, India o Brasile. Questa comporta una ricaduta diretta e immediata sulle città. Le quali, in questi paesi, si stanno trasformando (quando non vengono create e costruite dal nulla) in enormi megalopoli. La conseguenza immediata è che l’urbanistica torna a essere un tema politico. Finalmente. E insieme, anche la riscoperta di un’attitudine antica: pensare la città diventa un modo per progettare il futuro. A partire da queste considerazioni si possono porre alcune domande. Quali conseguenze determina un sistema politico sulla forma della città? Quali aspetti delle “nuove” città asiatiche hanno già penetrato le “nostre” città? Quale il ruolo dell’architettura di fronte alla crisi dello spazio pubblico? A provare a rispondere sarà chiamato il famoso architetto Rem Koolhaas, che interverrà questa sera alla Biennale Democrazia 2011 di Torino. Oltre che essere un famoso e blasonato rappresentante dello star system architettonico (le sue opere sono considerate, a ragione, fra le più interessanti del panorama degli ultimi decenni, coronate con il prestigioso Premio Pritzker, il “nobel” dell’architettura ricevuto nel 2000), Rem Koolhaas si è imposto anche come acutissimo teorico, visionario e al tempo stesso concreto, famoso per le sue idee radicali e poco convenzionali. Dapprima nel 1978 con Delirious New York, il “manifesto retroattivo” di Manhattan che rivoluzionò la lettura della metropoli contemporanea (in italiano da Electa). Poi nuovamente con Junkspace e oggi con Singapore Songlines (entrambi da Quodlibet). In particolare in quest’ultimo, denso, libretto, l’architetto olandese affronta già le questioni politiche e progettuali della città del futuro. Singapore diventa nella sua lettura un modello: quando ne scriveva, nel 1995, pensava che fosse destinato soltanto allo sviluppo urbano della Cina. Nella scioccante introduzione all’edizione italiana, invece, rilancia: quel modello di città nata da una tabula rasa, costruita dal nulla, quindi senza luogo, la cui forma è in continua trasformazione – ed è proprio questa “forma senza forma” a trasformasi nell’identità stessa della città – è il modello di ogni città, di tutti gli agglomerati urbani che anche da noi in Occidente faranno la loro comparsa, a breve. La profezia sulla città generica come forma delle megalopoli cinese si è, in sostanza, avverata. Vedremo se anche sul futuro delle nostre città occidentali ha visto giusto.