L'architetto Luca Zevi, il suo nuovo libro, e il progetto per un edificio dedicato alle vittime a Roma.
"Vorremmo dare l'idea di continuare a fare i conti con una vicenda che non si è conclusa".
Su quanto una memoria o più memorie tengano in piedi una comunità
nazionale e su quale sia la natura di questa memoria - quanto conti il
dolore, per esempio - discutono storici (Guido Crainz e Giovanni De
Luna) e riflettono saggisti (un nome per tutti: Tzvetan Todorov). Ma
anche un architetto come Luca Zevi prova a interrogarsi sugli "usi e gli
abusi della memoria". Dal dopoguerra in poi, ma in particolare negli
ultimi decenni, le città europee, e non solo, hanno arricchito il
proprio paesaggio di edifici che custodiscono memorie. Ma come le
custodiscono?
Luca Zevi, figlio di Bruno, progettista e professore universitario, in Conservazione dell'avvenire (Quodlibet, pagg. 186, euro 16) espone una serie di riflessioni sullo stato della città in generale, sul fenomeno della megalopolizzazione,
e segnala come dall'esperienza storica ebraica vengano utili
indicazioni per regolare la crescita urbana. Ma, a partire sempre dalla
tradizione ebraica e dal suo rapporto intenso e non feticistico con il
passato, rilegge criticamente il modo in cui l'architettura ha
consegnato in un edificio le proprie idee di memoria - dallo Jüdisches
Museum di Berlino, realizzato da Daniel Libeskind, all'Holocaust-Denkmal
che, sempre a Berlino, ha disegnato Peter Eisenman, fino al progetto di
Ground Zero a New York. E rilancia una sua idea di qualche anno fa,
quella di un Museo delle Intolleranze e degli Stermini nel quale, dice,
«si indaghi sulla genesi di questi fenomeni, nella convinzione che siamo
tutti reali o potenziali attori di azioni discriminatorie e che, per
cercare di non esserlo, è necessario lavorare su se stessi e
collettivamente».
In alcuni casi lei vede prevalere, invece, un elemento di monumentalizzazione. È il caso di Berlino.
«Lo
Jüdisches Museum è molto efficace: qualche tempo fa una mia amica mi ha
detto di essersi sentita, percorrendone l'interno, come gli ebrei che
fuggivano nei boschi senza riuscire a vedere né quel che avevano davanti
né quel che c'era indietro. Ma quel museo sembra voler esporre
soprattutto se stesso, più che ospitare un'esposizione. Trionfa nella
città come un grandioso memoriale dello sterminio, più che come luogo di
conoscenza e di riflessione sull'ebraismo tedesco».
In qualche modo corrisponde al profilo stesso di quella memoria, la memoria della Shoah. O no?
«Certamente.
In più c'è da considerare quanto la Germania abbia vissuto in modo
contrastato con quella memoria. Ma, a prescindere da Berlino, io osservo
che dagli anni Novanta del Novecento sia fiorita in modo impressionante
la "memoria letterale". Prenda l'Holocaust-Denkmal, l'immensa distesa
di parallelepipedi di cemento realizzata a pochi passi dalla Porta di
Brandeburgo. Ha un impatto urbano grandioso. La Shoah vi assume una
dimensione monumentale e tendenzialmente sovrastorica, nascondendo
quella "banalità del male" i cui germi sono ancora presenti fra noi. E
poi c¿è un aspetto poco convincente di carattere urbanistico».
Quale?
«Il nazismo, come gli altri totalitarismi
novecenteschi, ha imposto edifici enfatici nel cuore delle città, in cui
dominasse la componente inquietante. La sfida di un'architettura
democratica dev'essere quella, invece, di creare luoghi che
contribuiscano a integrare, che non dominino l'ambiente circostante, che
siano spazi pubblici, occasione di vita sociale».
E questo ruolo possono svolgerlo anche edifici che custodiscono memorie?
«Prenda
Yad Layeled, il museo della Shoah destinato ai bambini all'interno di
un kibbutz a nord di Israele. È ai margini dell'abitato, racconta lo
sterminio coniugando la storia del luogo, la sua natura, e innestandosi
in un progetto, quello del kibbutz, appunto, che è un modello sociale ed
esistenziale. Ma, restando all'Italia, si può citare il monumento ai
Caduti delle Fosse Ardeatine, realizzato nel 1949 dagli architetti Mario
Fiorentino, Giuseppe Perugini e Nello Aprile e dagli scultori Mirko
Basaldella e Francesco Coccia. È un esempio di poetica moderna, sia
architettonica che artistica, che si sposa perfettamente e delicatamente
con un ambiente storico, quello dell'Appia antica, con le memorie di
quel luogo e della tragedia che lì è avvenuta, offrendo una
testimonianza emozionante, ma non clamorosa».
Lei ha realizzato il Memoriale ai caduti del bombardamento di San
Lorenzo, a Roma - una fascia luminosa con i nomi delle vittime che corre
lungo i bordi di un'aiuola nel parco del quartiere. È a questi criteri
che si è ispirato?
«Abbiamo cercato un approccio sommesso, una
specie di "progetto al negativo" perché la memoria di una ordinaria
tragedia di guerra, che ha ucciso millesettecento civili, spingesse a
considerare il bene supremo della pace».
Tempo fa lei propose un Museo delle Intolleranze e degli Stermini, un
museo che consentisse, appunto, il dialogo fra diverse memorie, senza
che la Shoah, come lei sottolinea, perdesse il carattere di "massima
tragedia che la storia umana abbia conosciuto". Che cosa ne è stato di
quel progetto?
«Fu un'idea nata alla fine degli anni Novanta. Ne
parlammo con Veltroni, allora ministro dei Beni culturali, e Ciampi,
ministro del Tesoro. Poi cadde il governo Prodi e tutto fu accantonato».
In qualche modo quel progetto è riemerso nel Museo nazionale della
Shoah, che dovrebbe vedere la luce a Roma, in Villa Torlonia, e al quale
lei sta lavorando.
«Una volta chiuso il progetto definitivo ci
sarà l'appalto e ci vorranno un paio di anni per realizzarlo. È una
grande scatola nera, con i nomi delle vittime italiane dello sterminio
nazista, che sarà sospesa sulle nostre teste quasi a indicare come i
germi di quella immane e incomparabile tragedia incombano ancora su di
noi. Vorremmo trasmettere la sensazione di continuare a fare i conti con
una vicenda che non è conclusa, se è vero, come penso sia vero, che i
nostri giorni siano attraversati da inauditi fenomeni di intolleranza e
di sopraffazione».