Per un’ontologia e una politica del gesto
di Giorgio Agamben
Ho cominciato a riflettere sul gesto all’inizio degli anni Ottanta e da allora posso dire di non aver mai smesso di occuparmene, anche se in modo discontinuo e sotterraneo. Ero partito, come spesso mi capita più o meno consapevolmente di fare, non dalla norma e dall’alto – il gesto espressivo –, ma dall’eccezione e dal basso, cioè dalle patologie del gesto, che, verso la fine del XIX secolo, avevano trovato la loro situazione clinica nella sindrome di Gilles de la Tourette (oggi meglio nota come turettismo). Come recita il titolo dello studio pubblicato da questo psichiatra francese nel 1885 (Étude sur une affection nerveuse caractérisée par de l’incoordination motrice accompagnée d’écholalie et de coprolalie), si tratta di un collasso di tutta la sfera gestuale, cioè di un’impressionante proliferazione di tic, tanto motori che verbali, che impediscono al paziente di portare a compimento anche i più semplici movimenti corporei, che si frantumano in scatti spasmodici e in manierismi, e interrompono qualunque discorso con esplosioni coprolaliche e ripetizioni.
La cosa più singolare, che non aveva mancato di colpirmi, era che, a partire dallo studio di La Tourette, i fenomeni in questione vengono analizzati e descritti dagli psichiatri e dai neurologi in migliaia di casi e cessano poi di essere registrati dagli annali medici a partire dai primi anni del XX secolo, per riapparire bruscamente nel 1971, quando Oliver Sacks, passeggiando per le strade di New York, osserva nell’arco di pochi minuti tre casi evidenti di turettismo. L’ipotesi che allora suggerivo per spiegare questa curiosa circostanza era che, nel frattempo, i tic e i disordini gestuali erano diventati la norma, quasi che l’umanità occidentale fosse andata progressivamente perdendo i suoi gesti – o, quanto meno, la capacità di padroneggiare la propria gestualità. E, insieme, che la nascita del cinema, i tentativi di Muybridge e Marey di fotografare il movimento, le ricerche di Aby Warburg sulle Pathosformeln e anche, in filosofia, l’idea nietzschiana dell’eterno ritorno, avessero a che fare con questa perdita del gesto, fossero un estremo tentativo di recuperare ciò che era stato irrevocabilmente perduto.
È a partire da queste considerazioni che ho cercato di trovare una risposta alla domanda: «che cos’è il gesto» – impresa, come vedrete, non certo facile. Gli studi storici e antropologici sul gesto mi lasciavano insoddisfatto proprio perché non provavano nemmeno a rispondere a questa domanda e chiamavano “gesto” qualsiasi movimento corporeo, in particolare quei movimenti che tendevano a esprimere un significato. Il gesto era cioè considerato, come nella retorica antica (in cui, scrive Quintiliano, anche «le mani parlano»), come un segno non verbale, che mira a tradurre e rendere visibili significati verbali (tesi che Elenio criticherà nel suo intervento).
Per avvicinarsi a una definizione, sarà utile cominciare con alcune osservazioni sul termine latino gestus e sul verbo gero da cui esso deriva. Si tratta di due termini che esistono solo in ambito latino, senza alcun riscontro nelle altre lingue indoeuropee, e per i quali i linguisti esitano a suggerire un’etimologia sicura. La loro sfera di significato è particolarmente ampia: si può gerere una barba o una veste, ma anche un’amicizia, una funzione e perfino se stessi (se gerere, “comportarsi”); gestus, per parte sua, può significare qualsiasi atteggiamento del corpo e della persona.
Come sempre, avevo trovato un’indicazione utile in quel meraviglioso coacervo di intuizioni linguistiche che è il De lingua latina di Varrone. Varrone distingue qui tre “gradi” dell’attività umana, che chiama facere, agere e gerere.
«Si può», egli scrive, «fare (facere) qualcosa e non agire (agere), come il poeta che fa un dramma, ma non lo agisce [agere significa anche “recitare”]; al contrario, l’attore (actor) agisce un dramma, ma non lo fa. Così il dramma è fatto dal poeta, ma non è agito, mentre dall’attore è agito, ma non fatto. Invece l’imperator [il magistrato munito del potere supremo, l’imperium], che si dice res gerere, con questo non fa né agisce, ma gerit, cioè sostiene (sustinet), espressione traslata da coloro che portano un peso [o, secondo altri codici, rivestono una carica]» (VI, 77).
La distinzione fra facere e agere deriva da Aristotele, che nell’Etica Nicomachea (1140b) oppone l’azione (praxis) e la produzione, il “fare” (poiesis): «Il genere della praxis», egli scrive, «è diverso da quello della poiesis. Il fine del fare è infatti altro dal fare stesso, mentre il fine della prassi non può essere altro, poiché agire bene è in se stesso il fine». Il gesto non si lascia iscrivere nei due poli di questa alternativa, in cui Aristotele intendeva fondare il primato dell’azione politica: non è un’attività rivolta a uno scopo esteriore, come la poiesis, né un fine in sé come la prassi. Per la definizione del gesto, infatti, nulla è più fuorviante che rappresentarsi da una parte una sfera dei mezzi rivolti a un fine (muovere un braccio per prendere un oggetto o per fabbricare qualcosa) e, dall’altra, un movimento che ha in se stesso il suo fine, come l’azione politica per Aristotele o, per noi moderni, per i quali la dimensione politica è diventata opaca, l’attività estetica. Come Kafka aveva compreso («c’è una meta, ma nessuna via»), una finalità senza mezzi è altrettanto estraniante di una medialità che ha senso solo rispetto a un fine esterno.
Una prima definizione – certamente insufficiente – che avevo proposto era dunque questa: il gesto non è né un mezzo, né un fine: è, piuttosto, l’esibizione di una pura medialità, il rendere visibile un mezzo come tale, nella sua emancipazione da ogni finalità. L’esempio del mimo è, in questo senso, illuminante. Che cosa imita il mimo? Non il gesto del braccio al fine di prendere un bicchiere per bere o per qualsiasi altro scopo, altrimenti la mimesi perfetta sarebbe la semplice ripetizione di quel determinato movimento tale e quale. Il mimo imita il movimento, sospendendo, però, la sua relazione a un fine. Egli espone, cioè, il gesto nella sua pura medialità e nella sua pura comunicabilità, indipendentemente dalla sua relazione effettiva a un fine. Questa “medialità senza fine” è, per così dire, l’altra faccia della definizione kantiana della bellezza: «finalità senza fine (Zweckmässigkeit ohne Zweck)». Ma mentre la finalità senza fine è paralizzante e, in qualche modo, passiva, perché mantiene la forma vuota del fine senza alcun contenuto determinato, la medialità che è in questione nel gesto è attiva, perché in essa il mezzo si mostra come tale, nell’atto stesso in cui interrompe la sua relazione a un fine.
Abbiamo qui qualcosa di molto simile a quello che Benjamin nel saggio Sulla critica della violenza chiama «mezzo puro (reine Mittel)» e nel saggio di tre anni precedente Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini «pura lingua (reine Sprache)». Questi concetti perdono la loro enigmaticità se li si riporta alla sfera del gesto da cui provengono. Come la violenza pura è un mezzo che depone e interrompe la relazione giuridica fra mezzi legittimi e fini giusti e la pura lingua è una parola che non comunica qualcosa, ma soltanto se stessa, cioè una pura comunicabilità, così, nel gesto, l’uomo non comunica uno scopo o un significato più o meno cifrato, ma la sua stessa essenza linguistica, la pura comunicabilità di quell’atto liberato da ogni fine. Nel gesto non si conosce qualcosa, ma soltanto una conoscibilità.
Decisivo per comprendere la natura del gesto è, dunque, il momento dell’interruzione e della sospensione, cioè il suo rapporto col tempo, inteso come successione cronologica lineare. Mi ha sempre colpito il fatto che un grande coreografo quattrocentesco, Domenico da Piacenza, nel suo trattato Dell’arte di ballare e danzare, ponga al centro della danza un momento di arresto che chiama «fantasmata».
Eccone la definizione: «una prestezza corporale, la quale […] fa requie a cadauno tempo che pari aver veduto lo capo di Medusa, cioè che facto el moto, sii tutto di pietra in quello istante […] operando mesura e memoria».
Domenico chiama «fantasmata» un arresto improvviso fra due movimenti, tale da contrarre nella propria immobile, impietrita tensione la misura e la memoria dell’intera serie coreografica. Si vede qui con impareggiabile chiarezza che il gesto non è solo il movimento corporeo del danzatore, ma anche – e piuttosto – il suo stallo fra due movimenti, l’epoché che immobilizza e, insieme, commemora ed esibisce il movimento. Del gesto sospeso e imperioso con cui la grande danzatrice flamenca Pastora Imperio annunciava il suo esordio, ricordo che José Bergamín e Ramon Gaya, che l’avevano vista ballare, dicevano che non era danza, ma l’apertura dello spazio in cui la danza poteva avvenire. Qui l’arresto precede quasi profeticamente il movimento del danzatore, come in Domenico lo interrompeva e rammemorava.
Essenziale è, in ogni caso, che questa immobilità e questo arresto siano carichi di tensione, come Lessing diceva del Laocoonte che il suo gesto immoto contraeva in sé tanto i movimenti che lo hanno preceduto che quelli che avrebbero seguito.
Questa tensione carica di motilità, questa speciale temporalità messianica e non lineare del gesto, si può esprimere anche attraverso la sua incessante ripetizione. È qualcosa del genere che gli antichi avevano intuito nella loro rappresentazione dell’Ade, in cui le ombre dei morti ripetono senza fine un unico gesto, il loro gesto, che li consegna alla loro conoscibilità. Anche qui decisiva è l’assenza di ogni finalità effettiva, come nel gesto delle Danaidi che versano acqua in un recipiente bucato. O come nei presepi meccanici, in cui i pastori che assistono all’evento messianico non fanno che ripetere interminabilmente il loro umile gesto quotidiano. E non è escluso che Nietzsche, nella sua idea dell’eterno ritorno, cercasse di afferrare e contrarre il tempo infinito in un gesto.
La nostra presentazione del gesto come mezzo puro, cioè come esposizione di una medialità senza fine e comunicazione non di qualcosa, ma di una comunicabilità, implica – o, piuttosto, esige – che ci si provi a definirne in qualche modo la consistenza ontologica. Se il gesto è caratterizzato dall’arresto e dalla sospensione, in cui si dà a conoscere soltanto una conoscibilità, significa questo che esso ha una realtà soltanto negativa, dell’ordine non di un essere, ma di un non-essere? Qual è, in altre parole, il modo di essere della conoscibilità?
Si tratta qui di provarsi a precisare quella relazione fra una cosa e la sua conoscibilità, che, nella storia della metafisica, è stata spesso fraintesa come la differenza ontologica fra l’essere e l’ente. Occorre innanzitutto restituire questa relazione alla sua natura di relazione fenomenologica, cioè al particolarissimo nesso e quasi all’armonia fra una cosa e il suo apparire, fra un ente e il suo darsi a conoscere. È evidente che la conoscibilità di una cosa non è un’altra cosa accanto e oltre la cosa, ma non è neppure la mera identità della cosa, il suo essere uguale a se stessa. Esibire, come fa il gesto, la conoscibilità di qualcosa significherà allora semplicemente, nelle parole di Hölderlin, mostrarlo «nel medio del suo apparire (in dem Mittel seiner Erscheinung)». L’ente non è qui in alcun modo separabile dall’essere, come la metafisica ha invece incessantemente tentato di fare, ma l’essere non è che l’ente nel medio della sua conoscibilità – è, in questo senso, soltanto un gesto.
Qui le categorie dell’ontologia – esistenza ed essenza, quidditas e quodditas, potenza e atto, essere e ente – collassano necessariamente l’una sull’altra, coincidono, cioè: cadono insieme. Illuminanti sono in questa prospettiva le considerazioni di quei filosofi medievali che, fra il XII e il XIII secolo, si interrogano sullo statuto del movimento.
Averroè, nel suo commento alla Fisica di Aristotele, si chiede come mai alcuni filosofi abbiano potuto definire il movimento come un non-essere. Ciò è avvenuto – egli spiega – perché il movimento non rientra né nell’ambito della potenza né in quello dell’atto, ma è un essere intermedio fra queste due fondamentali categorie dell’ontologia aristotelica, che egli definisce come «il compimento della potenza in quanto potenza». La potenza, cioè, non scompare nell’atto, ma permane e si mostra in questo. In modo simile, Roberto Grossatesta, la cui filosofia della luce ha esercitato un’influenza decisiva su Dante, distingue due modi di realizzare la potenza nell’atto. In un primo modo, ciò che è in potenza si compie e esaurisce (Grossatesta parla di perfectio) nell’atto, nel secondo, invece, l’atto conserva (salva!) la potenza nella sua imperfezione (salvat ipsam in imperfectione). Egli fa l’esempio di qualcosa che può diventare bianco (il biancheggiabile, albisibilis): nel primo caso, esso si compie e annulla nell’albedo, nella bianchezza, nel secondo, l’atto mantiene e conserva il biancheggiabile come tale. (Che questa coincidenza delle due categorie ontologiche di potenza ed atto abbia un significato etico si comprende immediatamente se si immagina una vita in cui la “vivibilità” non si esaurisce mai in un “vissuto”, ma conserva in ogni momento la sua potenza di vivere).
È significativo che, come esempio di questa potenza che si conserva nell’atto, Alberto Magno non trovi nulla di più adeguato del gesto del mimo e del danzatore. «L’evoluzione circolare in cui si involvono i mimi (volutatio quam volvuntur mimi)», egli scrive nel suo commento alla Fisica, «è il compimento del loro essere abili al ballo e della loro gioiosa potenza di danzare in quanto potenza (perfectio saltabilium sive potentium tripudiare et choreizare secundum quod in potentia sunt)».Tra la possibilità e la realtà fattuale, il «tripudio» del danzatore insinua qui un terzo genere di essere, un medio in cui la potenza e l’atto, il mezzo e il fine si compensano e si esibiscono a vicenda. Questo fragile equilibrio non è una negazione – è, piuttosto, una scambievole esposizione, non una stasi, ma un reciproco tremare della potenza nell’atto e dell’atto nella potenza.
Una volta Focillon, per descrivere la speciale qualità dell’immagine artistica, si serve della metafora di una bilancia in precario equilibrio, in cui l’asta sembra appena oscillare, «miracolo di una immobilità esitante, tremito leggero e impercettibile che ci indica che essa vive». Ed è inseguendo una simile compiuta incompiutezza che, osservando danzare la Loïe Fuller, Mallarmé poteva scrivere che essa era la fontaine intarissable de soi-même; e, descrivendo Nijinski, Jacques Rivière poteva dire che «egli viaggia su un sentiero che distrugge man mano che lo percorre, seguendo un filo misterioso che diventa subito invisibile dietro di lui […] ogni volta che il corpo sembra offrire impulsi e occasioni, altrettante volte il movimento s’interrompe e ricomincia; e ogni volta che egli sente in se stesso uno spunto possibile di partenza, altrettante volte ritrova e trattiene il suo slancio. Si riprende a ogni istante, come una sorgente di cui deve esaurire successivamente tutti i fiotti; risale controcorrente dentro di sé e la sua danza è l’analisi e la conta di tutte le inclinazioni a muoversi che scopre in se stesso».
Non credo che si potrebbero trovare parole più adatte per descrivere un’ontologia del gesto. Si tratta, naturalmente, di un’ontologia modale e non sostanziale, nel senso che si potrebbe dire, nei termini di Spinoza, che i modi sono i gesti dell’essere. Ed è significativo che il gesto del danzatore sia qui definito attraverso l’interruzione e l’incessante ripresa di spunti sorgivi che provengono dal suo corpo, come i modi esprimono puntualmente l’essere nella sua inesausta sorgività.
Non posso concludere queste riflessioni sul gesto senza evocare, sia pure sommariamente, il suo possibile significato politico. Voi sapete che, da Aristotele a Hannah Arendt, la sfera della politica è sempre stata definita come la sfera propria della prassi, cioè dell’azione (actio è la traduzione latina di praxis). In una ricerca recente (che nel frattempo è stata pubblicata), ho cercato di mostrare che vi è un rapporto costitutivo fra il concetto di azione (esso stesso, in origine, una nozione giuridica, che designa la sfera del processo) e quelli di causa e di colpa. L’ipotesi che intendevo suggerire era che questi tre concetti costituivano insieme il dispositivo attraverso il quale i comportamenti umani vengono iscritti nella sfera del diritto e diventano “colpevoli”, cioè imputabili in vario modo a un soggetto. Diventano, cioè, un crimen, nel significato originario del termine, forse apparentato al sanscrito karman, che indica la connessione implacabile fra le azioni di un soggetto e le loro conseguenze. Il diritto e la morale ci hanno così abituati all’idea che l’uomo debba rispondere delle sue azioni, che nulla ci sembra più ovvio e scontato. Eppure non si dovrebbe dimenticare che tutta l’opera del più grande teologo del XX secolo, Franz Kafka, non è che un’ostinata, quasi ossessiva riflessione su quest’unica domanda: «come può un uomo essere colpevole?» – come è potuto accadere che una mente umana abbia potuto concepire l’idea che le sue “azioni” debbano essergli imputate e renderlo colpevole?
Nella mia indagine ho cercato di mostrare che, nella modernità, l’elaborazione del concetto di “azione” è inseparabile dal concetto di “volontà”, a tal punto che si può dire che essi si articolano insieme in un paradigma, il cui scopo è di fondare la libertà e, quindi, la responsabilità del soggetto moderno. Non è certo questo il luogo per ricostruire la formazione del concetto di volontà, che, quasi assente nel mondo classico, si costituisce progressivamente attraverso un secolare processo, in cui gnosi, ermetismo e neoplatonismo si uniscono con la teologia cristiana, che insedia su di esso il suo decisivo cantiere. Voglio qui solo soffermarmi su un momento in apparenza trascurabile di questo processo, quello in cui, giunto al punto della sua Summa contra Gentiles in cui deve affrontare il tema del bene e del male e dell’azione umana, Tommaso ha appena enunciato il teorema secondo cui omnis agens agit propter finem, ogni uomo che agisce determina la volontà rispetto a uno scopo.
È significativo che proprio a questo punto il doctor angelicus si urti a un ostacolo inaspettato, che concerne proprio la sfera del gesto. «Vi sono delle azioni», egli scrive, «che non sembrano compiute in vista di un fine, come quelle fatte per gioco (ludicrae) e quelle contemplative e quelle che si fanno distrattamente (absque attentione), come il gesto di toccarsi la barba (confricatio barbae) e simili, dalle quali si potrebbe essere indotti a credere che un agente possa agire senza un fine». Mentre le azioni ludiche e quelle contemplative si lasciano ricondurre, sia pure con una certa forzatura, a quelle che hanno in se stesse il proprio fine, più imbarazzante è il caso dei tic e delle azioni fatte distrattamente, che Tommaso cerca di ricondurre a ogni costo alla categoria della finalità, motivandole con una «improvvisa immaginazione» o «con un disordine degli umori che produce un prurito».
Quel che il teologo non può accettare è che vi siano degli atti umani che compiamo ogni giorno, i quali non si lasciano in alcun caso iscrivere nel dispositivo della volontà e dei fini. Tanto nelle evoluzioni del danzatore che nelle posture e nelle movenze in cui ci atteggiamo senza accorgercene, il gesto non solo non è mai, per colui che lo compie, mezzo per un fine, ma nemmeno può essere considerato un fine in sé. E come, nella sua assenza di finalità, la danza è la perfetta esibizione della potenza del corpo umano, così possiamo dire che, nel gesto, ciascun corpo, una volta liberato dalla sua relazione volontaria a un fine, organico o sociale che sia, può per la prima volta esplorare, sondare e mostrare tutte le possibilità di cui è capace.
Avrete capito, a questo punto, che l’ipotesi che intendo suggerire è che l’etica e la politica siano la sfera del gesto e non dell’azione, e che, nella crisi apparentemente senza uscita che queste due sfere stanno attraversando, sia venuto il momento di chiedersi che cosa potrebbe essere un’attività umana che non conosca la dualità dei mezzi e dei fini – che sia, in questo senso, gestualità integrale.
Si tratta di un paradigma che, nella tradizione dell’Occidente cristiano, è presente forse soltanto nella condizione di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre prima della caduta, in quel “giardino di delizie”, in cui, come dice Dante, «fu innocente l’umana radice».
È un caso se il poeta, che definisce «dolce gioco» la condizione paradisiaca, ne fornisca l’immagine nella figura di una giovane donna che danza?
«Come si volge, con le piante strette
a terra e intra sé, donna che balli
e piede innanzi piede a pena mette…»
Vorrei tornare, a questo punto, all’immagine del “giardino”, sotto il cui segno abbiamo inteso porre le nostre ricerche sul gesto. Mi sembra lecito suggerire che il paradeisos, il giardino in Eden, che Dante definisce come il «luogo eletto / all’umana natura per suo nido», in quanto nomina per eccellenza la felice dimora degli uomini sulla terra, possa e debba essere visto come un paradigma genuinamente gestuale e politico.