Catalogo / / Gestare la figura. Note sulla pittura e il suo gesto

Gestare la figura. Note sulla pittura e il suo gesto
di Monica Ferrando
 

1. Il Trattato Quarto del Convivio dantesco si apre con un’argomentazione politicamente decisiva: si intende mostrare, nel contesto di un discorso di filosofia della storia in chiave di economia della salvezza le cui potenze sono impero e filosofia, come la vera auctoritas sia solo quella del filosofo, l’unico capace di definire la virtù, cioè la misura del valore della vita, mentre l’imperatore può esercitarla solo a patto di possederla. Si tratta di un possesso i cui esempi canonici, tratti dall’antica storia romana, compongono una sorta di martirologio laico compiutosi con la nascita di Cristo sotto Augusto, rendendo tale possesso tutt’altro che ovvio, visto che l’ultimo esempio di Dante, prima della conclusione del ragionamento, cade su Nerone e sulla sua lontananza dalla filosofia. Constatazione che permette di affermare che: «è manifesto che diffinire di gentilezza non è de l’arte imperiale». Quella imperiale quindi, prosegue il discorso, se non è un’arte non può aver alcuna voce in capitolo nell’arte, che quindi si definisce libera e indipendente dal potere, ed è proprio questo quel che il poeta voleva dimostrare. Tale dimostrazione smentisce l’opinione comune, rivelandosi come una vera e propria vittoria a vantaggio di coloro che avvertivano l’esigenza di questa «luce» (IV, 9).
Il capitolo successivo del trattato dimostrerà, sulla scorta di un passo della Metafisica di Aristotele secondo cui «quando una cosa si genera da un’altra, generasi di quella, essendo in quello essere», che solo ciò che si possiede intimamente, cioè che “si è”, può diventare opera. Il punto è mostrare che le ricchezze e gli antenati, dai quali l’opinione comune fa dipendere la legittimità dell’impero e del potere politico, non possono produrre da se stessi quella nobiltà che consente di operare bene e di cui pure appaiono alla maggioranza depositari e garanti. Non vi è stata, forse, dalla fine del mondo antico, posizione più chiara di questa nel distinguere lo statuto della filosofia da quello del potere mondano. Anche di quello imperiale, di cui Dante viene invece così spesso riconosciuto il fervente fautore.
La questione è ardua e qui importa soltanto quale singolare ed eloquente contesto di quella che, poco oltre, nell’incipit dello stesso trattato, che si apre con la Canzone Terza, appare l’improvvisa illuminazione di una teoria della pittura. Una visione della pittura il cui compito è quello di fungere da esempio argomentativo del discorso sulla legittimità del potere, che non può prescindere dalla ricerca della sapienza, cioè dalla filosofia. Cosa tiene legate le due sfere, apparentemente lontane, dell’arte e di una politica alla cui guida deve porsi non la fama esteriore ma l’amore del pensiero? Se nell’opera pittorica, e nell’operazione della guida politica, è in questione innanzitutto l’essere stesso dei loro rispettivi auctores, tale nesso ontologico non potrà ovviamente venir garantito da qualcosa di esteriore come il possesso di beni e di legami familiari.  Leggiamo i due punti:

«Poi, chi pinge figura
se non può esser lei, non la può porre…»
(Convivio IV, Canzone Terza, vv. 52-3)
 
«Onde nullo dipintore potrebbe porre alcuna figura, se intenzionalmente non si facesse prima tale quale la figura essere dee» (IV, 10, 11).

Il discorso prosegue affermando come sia impossibile estrarre una figura – e un’opera – da se stessi senza revocare in questione natali e censo, sottintendendo quanto invece tali fattori incidano in ciò che opera – figura – non è. È chiaro che l’opera politica, allora, come “operazione”, di cui quella del pittore che produce da sé una figura a lui necessariamente somigliante è la sapiente allegoria, muove da una stessa premessa ontologica e pone quindi alla sfera dell’apparire la medesima esigenza etica. L’immagine, tanto del potere che del pittore, rivela immancabilmente la sua fonte, il grembo etico-estetico da cui scaturisce, enunciando il principio di un vincolo indissolubile che incrocia, da una parte, gesto del pingere e autorità, e, dall’altra, figura dipinta e gesta politiche. Tanto al pittore che alla guida politica è posto un compito la cui possibilità è data unicamente dalla sua naturalezza immediata: dare alla luce, esprimere, ciò che si può essere. Il pittore secondo l’esigenza dell’opera, la guida politica secondo quella della giustizia.
Una giustizia come conformità al bene comune, che possa venir percepita e attuata in maniera naturale e immediata, costituisce il frutto di quella sapienza che per Dante si è manifestata nell’umanità una sola volta, con Salomone: «la quinta luce ch’è tra noi più bella / spira di tale amor che tutto il mondo / laggiù ne gola di saper novella. / Entro v’è l’alta mente u’ si profondo / saver fu messo che se vero è vero / a veder tanto non surse il secondo» (III, 10, 109-114). L’umano diventa tale solo se può attingerla dedicando la vita all’amore, che è amore del pensiero, filo-sofia.
 
 
2. In che misura l’arte pittorica può fornire l’esempio di quanto vi è di più arduo e ancora mai realizzato dall’umano su questa terra? Si direbbe che la legittimità del potere riposi sulla stessa logica immanente dell’arte. Rinunciando alla determinazione preconcetta di fini – il cui carattere angusto, ma imposto universalmente, non può che risultare fatale –, un potere che sia davvero legittimo deve apparire molto simile a un’apertura verso quella kantiana “finalità senza scopo” che l’arte impara con stupore dalla natura quando contempla il modo disinteressato e inintenzionale dei suoi molteplici aspetti. Non può che destare un salutare stupore il fatto che gli elementi naturali si organizzino in vista di quel fine unico, ma assolutamente contingente, che sono la forma organica e la figura geometrica, la cui intima necessità appare tanto più imprevedibile quanto oggettivamente perentoria. Siamo evidentemente fuorusciti dal regno dell’“intelletto determinante”. Per ritrovarci, forse, nel territorio dell’irrazionale soggettivo, la cui vana gratuità esige un’incessante quanto fittizia autolegittimazione? No, al contrario. Quel che scorgiamo nell’esperienza dello scacco della determinazione razionale del pensiero rappresentativo è lo stupore per la scoperta di qualcosa che ci appare come perfezione esistente al di là e indipendentemente dall’umano. Non un’idea romantica di natura, ma un’esperienza concreta della contemplazione. Si tratta dell’incontro del pensiero e della percezione con quella finalità senza scopo, eppure conforme a un misterioso scopo, che Kant, nel paragrafo 61 della seconda parte della Critica del Giudizio, pone al di là del soggetto trascendentale, e che postula nondimeno, ricollegandosi a Platone e forzando i limiti dettati dalla gabbia categoriale della rappresentazione, come oggettiva. Tale finalità, indipendente dall’uomo e totalmente sganciata da ogni possibile previsione di scopi, non potrà essere data a priori, ma solo contemplata e ammirata nel giudizio riflettente. Ammettere questo stato di stupore, che in Kant diviene piuttosto ammirazione, dinnanzi alla finalità senza scopo della natura, equivale alla possibilità di una sospensione della centralità del soggetto moderno su cui riposa l’operare scientifico – centralità che avrebbe compensato la distruzione della natura come mondo a spese del fondamento ontologico dello stesso soggetto che ne fa parte. Un tale stupore equivale, cioè, a un ritorno a quella struttura “erotica” del pensiero, in cui l’umano ripristina e accetta, entro la natura, l’originaria proporzione a suo sfavore, ricavandone però, in cambio, quella paradossale “dipendenza emancipante” – secondo l’espressione coniata da Gerhard Krüger e ripresa da Gianni Carchia –, senza la quale non potrebbe darsi filosofia (L’eros del pensiero. Stupore e ammirazione in Kant, in Id., L’amore del pensiero, Macerata 2000).
La filosofia è così realmente quello stato erotico incessantemente generato dalla privazione intraprendente dell’unione di Poros e Penia.
 
Forse, per comprendere il nesso che, in Dante, lega il gesto del dipingere – «chi pinge figura» – al gesto politico – le gesta lo sono per antonomasia –, occorre postulare proprio una tale condizione di naturalezza capace di ignorare ogni presunzione dell’intelletto, forte del suo apparato categoriale in cui il soggetto non fa che rispecchiare se stesso. Abbandonarsi – entro uno stato di Gelassenheit ontologica – alla scoperta ammirata e feconda di un’alterità altrimenti celata. Se il gesto ontologico, in cui ne va della figura dipinta come dell’essere del suo autore, istituisce secondo Dante un parallelo con l’esigenza filosofica posta dall’esercizio dell’auctoritas, è perché entrambi devono potersi fidare della natura. Una natura che è quell’oggettività incontrollabile e imprevedibile a cui tanto l’arte della pittura che l’arte della politica fanno necessariamente ricorso.
 
 
3. Tale fondamento ontologico comune pone il problema dell’apparenza, da cui né la pittura né la politica possono sfuggire. L’apparenza, infatti, è il loro preciso ambito, la sfera cui, nel piccolo e nel grande, ciascuna deve presiedere. Ci occuperemo del piccolo, della pittura, cercando di capire perché essa, considerata maestra dell’inganno, accomunata fin dall’antichità al trompe-l'œil, valga invece come esempio di veridica autenticità.
L’uso della parola σχῆμα, che in greco significa “figura” e “gesto”, è sempre connesso alla sfera dell’apparenza. Esso esprime un’apparenza che non mente perché rispecchia fedelmente ciò che fa apparire, come è attestato in un verso dello Ione di Euripide, dove Ione riconosce Creusa dicendole: «il tuo schema è segno di nobili modi» (Ione, 238), intendendo la sua figura e i suoi gesti come prova immediata di nobiltà d’animo. Ma può anche indicare il limite proprio dell’apparenza, su cui non può esser fondato il giudizio etico, come risulta chiaramente nel dialogo di Luciano Ermotimo o delle sette, dove l’ironia dell’autore è volta a smascherare lo schema dell’ethos, come se l’ethos dovesse darsi a vedere da una particolare apparenza canonica. In filosofia non è possibile giudicare sulla base dell’immagine anche se esiste un irreparabile atteggiarsi filosofico.
Si comprende, date le premesse che fanno di questo termine un luogo cruciale del giudizio estetico e morale, come schema, nel discorso sull’arte del mondo antico, detenga una densità di significato molto maggiore di quella di “schema iconografico” propria dell’odierno lessico storico-artistico. Con esso si esprime infatti il rapporto necessario, e la possibile scissione, tra essere e apparire che costituisce il massimo problema della vita politica e dell’arte greca. Socrate, condannato dalla polis in base a un giudizio fondato sulle apparenze, mostrerà, nel Simposio platonico, grazie e malgrado un professionista della bella apparenza come Alcibiade, quanto un modo di apparire volgare, non da filosofo, non sia smentito dal suo modo di essere divino (come vorrebbe il suo discepolo amante), ma coincida invece perfettamente con la divinità dell’anima. In tal modo, è rivelata la vera natura dell’eros filosofico, il solo capace di trasformare il rigido canone estetico della bellezza in feconda dinamica etica.
Se lo schema può ingannare, ciò accade sulla base di una totale fiducia nella sua verità. Ciò non significa quindi che, con intransigenza iconoclasta, la validità della sfera dell’apparenza debba essere risolutamente negata. È, piuttosto, il giudizio che su di essa si esercita a dover essere seriamente indagato e messo alla prova. Un’erotica dipendente da un rigido canone estetico avrà sempre una identica, e prevedibile, reazione giudicante. Un’erotica filosofica invece, in cui il contatto con la bellezza è originario – Eros viene al mondo alla festa per la nascita di Afrodite – saprà discernere l’apparenza in modo infallibile.
Uno studio dedicato al termine schema da Maria Luisa Catoni ha mostrato come, nella cultura greca, la fiducia nell’effetto dell’apparenza vada di pari passo col suo uso strumentale teso all’inganno (Schema e valori, vita e immagini, in: AA. VV. Skhèma/Figura. Formes et figures chez les Anciens, Paris 2004).
I travestimenti da dee o da regine, resi possibili dalla strumentalizzazione di un’apparenza considerata efficace di cui ci parla Erodoto (VII, 160, 5; III, 14, 21), sono tutti descritti con il termine schema. Tale ambiguità non sfugge a Tucidide (VIII, 89, 3), se, per descrivere in un discorso la differenza tra pubblica virtù e vizio segreto, è proprio di questa parola che si serve. Nel linguaggio della narrazione, schema è dunque la “bella figura” sotto o dietro la quale può celarsi l’esatto contrario. Se giocare con questa ambiguità traendone spunti narrativi, poetici o morali alle arti del linguaggio è consentito, diversamente stanno le cose per quanto riguarda una disciplina come la medicina, in cui l’immagine deve comunicare un contenuto oggettivo altrimenti irraggiungibile, oppure come l’arte figurativa, dove l’immagine non deve comunicare null’altro che se stessa.
È stato probabilmente Platone a coniare l’espressione che indica i pittori come i mimetai, coloro che “imitano” l’essere vivente, impiegando schema e chroma, cioè “figura” e “colore” (Nomoi, 668d-669a). Alla correttezza dell’imitazione deve corrispondere il corretto giudizio della vista:

«ATENIESE: Vi sono innumerevoli rappresentazioni che possiamo cogliere con la vista. Ebbene, e se si ignora che cos’è ciascuno dei corpi imitati? Si potrà mai riconoscere se la loro esecuzione è ben fatta? Voglio dire, ad esempio, se si potrà sapere se sono state mantenute le proporzioni numeriche del corpo e la disposizione delle singole parti, e se, stando alcune sue parti in relazione con le altre, hanno conservato i loro reciproci rapporti secondo l’ordine conveniente e anche i colori e le figure (χρώματά τε καὶ σχήματα), oppure se tutto ciò è stato fatto in modo confuso: vi sembra forse che possa mai comprendere tutto questo un tale che ignora come sia fatto l’essere vivente, oggetto d’imitazione?
CLINIA: E come potrebbe?
ATENIESE: Se invece sapessimo che ciò che è stato raffigurato o modellato è un uomo, e che tutte le sue parti gli sono state assegnate dall’arte, i colori come le figure (καὶ χρώματα ἅμα καὶ σχήματα)? Non è forse necessario che chi conosce queste cose è anche pronto a riconoscere se la composizione è bella oppure manca di bellezza? 
CLINIA: Tutti, per così dire, straniero, in tale circostanza saremo in grado di riconoscere la bellezza degli esseri viventi. 
ATENIESE: Quello che dici è giustissimo. E allora chi vorrà essere un saggio giudice di ogni rappresentazione imitativa – pittorica, musicale, o qualsiasi altra – deve avere questi tre requisiti: primo, conoscere l’oggetto in questione; poi quanto sia corretta la rappresentazione; e terzo, capire se una rappresentazione qualsiasi risulta ben realizzata con le parole, le melodie e il ritmo».

In questo passo, come si vede, non si ammette, neppure per le arti della parola, la possibilità dell’inganno, ma soltanto dell’errore. Per quanto riguarda la pittura, essa dipende interamente dall’uso di schemi e colori, in un eloquente binomio di coappartenenza reciproca che delinea il campo dell’esperienza visiva, sia compiuta sulla natura delle cose che sull’apparenza di esse nella superficie dipinta. A ben vedere, lo schema, che emerge nel chroma, indica qui una riduzione alla sola apparenza, senza possibilità di scampo o infingimento. In pittura, infatti, non vi è che questa. È qui che troviamo lo schema in tutta la sua purezza di tramite esplicito, di figura.
 
Sappiamo che, nell’arte greca, la figura si identifica con un particolare gesto o atteggiamento. Pausania (I, 21, 3), nella descrizione della roccia del monte Sipilo, riesce a identificarvi la figura di Niobe, perché Niobe è indefettibilmente associata al gesto di una donna che piange e soffre, così come, nella descrizione della Nekya di Polignoto (X, 29, 3), egli non esita a identificare Fedra a partire dal gesto che la rende riconoscibile. Quel che insomma apprendiamo, al di là dell’identificazione delle figure, è che esse non sono altro che il loro schema. Che la figura, nel colore in cui si genera, è immediatamente e naturalmente gesto. Che non c’è, in pittura, figura senza gesto: per questo, la parola che anticamente le connota è una sola. Ma dovremmo, allora, forse concluderne che la figura in pittura, come sembrerebbe fare Chastel (Il gesto nell’arte, Laterza 2002), possa ridursi ad un repertorio di gesti che si tratta di identificare perché, nel loro muto linguaggio, ci traghettino sulle rive sicure del significato?
 
 
4. La pittura, che «si occupa di cose mute», non è un linguaggio muto che va decifrato conferendo alle sue figure un significato esatto, anche se questo è certamente un modo di comprenderla. Comprenderla, però, restando estranei alla sua dinamica interna.  In essa, le figure sono esattamente i gesti che compiono o che non compiono, in quanto ogni figura – anche il dormiente e il morto – è gesto. La pittura appare infatti come una “figurazione” che è molto simile a una gestazione. Una gestazione nel chroma come chora da cui ogni figura emerge. “Gestazione” viene dal verbo latino gesto, frequentativo di gero, “portare”. Gestare aliquem in oculis è un’espressione usata da Terenzio per significare la tenerezza verso qualcuno. Portare una figura sulla carta o sulla tela è portarla negli occhi attraverso un gesto: della figura stessa e di colui che la porta, in un’indeterminazione di oggetto e soggetto che luogo al movimento dell’immaginazione visiva la quale ha luogo nella sorprendente immobilità della pittura.
Sappiamo che la parola tedesca Gestaltung, gesto del comporre e articolare dinamicamente la Gestalt, la forma, è la chiave di volta della pittura di Klee. Quando, negli anni ’60, dei suoi corsi al Bauhaus è stata condotta l’edizione italiana, i curatori dell’opera avevano scelto giustamente di tradurre il termine tedesco con “figurazione”. Per restare fedeli al senso di questo termine occorre probabilmente intenderlo proprio come quel gesto attraverso cui una forma diventa riconoscibile: la forma accede, cioè, a un significato prima imprevedibile, ma in qualche modo preparato e favorito, come se si trattasse di una nascita. Una nascita nella pittura di ciò che non poteva esistere altrimenti e che viene infatti dato alla luce, «reso visibile» secondo le parole stesse di Klee (Teoria della forma e della figurazione, Milano 1976).
Non c’è alcun significato preesistente da mettere in scena, nessuna orchestrazione teatrale da esibire sull’immobile palcoscenico del quadro. Intendere la pittura come irreparabile fissità cui manca il movimento sarebbe tradirne completamente lo spirito, che è appunto quello di gesto puro. Il gesto è a tal punto inseparabile dalla pittura, da diventare essa stessa “gestuale”, una volta abbandonata la figura. In ogni caso si tratta di un gesto reso, come direbbe Agamben, inoperoso, sospeso dal compito – presunto, in realtà – di accompagnare il linguaggio accentuandone l’intenzione comunicativa e per questo tanto più imprevedibile e intrinseco al rendersi visibile della natura.
Alcuni quadri, oltre a tutta l’opera di Klee, possono aiutarci a capire questo aspetto la cui rilevanza interessa la pittura nel suo insieme.
Prendiamo, ad esempio, Rebecca e Eliezer di Poussin, quadro dipinto nel 1648 per Jean Pointel, che illustra il capitolo XXIV della Genesi, conservato al Louvre.

 

a


Lo stretto rapporto con un significato unitario da trasmettere sarebbe qui il minimo da aspettarci e, ad uno sguardo veloce, sembra proprio così. Lo sguardo veloce e distratto, però, non è fatto per la pittura, la quale, come diceva Klee, ha sempre bisogno di una sedia. Guardando attentamente scopriamo, infatti, che le figure si animano ciascuna nel proprio gesto, imprevedibile non solo a un osservatore che conosca bene l’episodio biblico di Abramo – che invia il suo servo Eliezer nella sua terra d’origine, la Siria mesopotamica, per trovarvi una sposa per Isacco, sposa che sarà appunto Rebecca. Imprevedibile anche nell’economia della scena, quando per esempio vediamo il gesto della ragazza che tenta inutilmente di interrompere quello della compagna che, presa com’è dal discorso di Eliezer, non smette di versare l’acqua della sua anfora.
Di questo dipinto abbiamo una lettura esemplare di Claude Lévi-Strauss, il quale coglie la rilevanza di un gesto talmente naturale e gratuito da essere universale (Guardando Poussin, in Id., Guardare. Ascoltare. Leggere, Milano 1994).
La figura, in alto a destra del quadro, che “compie” tale gesto, senza tuttavia compierne in realtà alcuno, è la Terra: quella Terra che accoglie e articola il folto gruppo delle altre donne. Come arriva il grande antropologo a questa identificazione assolutamente inedita? Considerandone il colore dell’incarnato, ricco dei grigi del monumento, a cui essa si appoggia, e che sorregge una sfera di pietra. Mentre le altre figure si distinguono per le vesti straordinariamente colorate, confermando l’affermazione platonica secondo cui gli schemata si associano ai chromata in un binomio inscindibile e originario, questa se ne distacca proprio perché il suo schema fa tutt’uno con il suo chroma. Il suo gesto di totale nonchalance – di sospensione inoperosa, potremmo dire – lascia che ogni altro gesto articoli la sua presenza in totale gratuità e insignificanza. Secondo Lévi-Strauss si tratta delle immagini della stirpe, dell’ethnos, colte in un normale e quotidiano affaccendarsi che non ha nulla di storico o di teatrale, di enfatico ed eloquente.
 
Un altro esempio, sempre di Poussin, possiamo scorgerlo nella seconda versione dei Pastori d’Arcadia, dipinto intorno al 1640 e anch’esso conservato al Louvre.

a
 
Anche a proposito di questo dipinto vi è un’osservazione di Lévi-Strauss assolutamente convincente che riguarda proprio il gesto della figura femminile. Ella è appena sopraggiunta, ha appena posato la mano sulla spalla del pastore. Non abbiamo altro modo di identificarla se non con questo comunissimo gesto in cui interamente si racchiude. Non sapremo mai con certezza chi è e che cosa vuol significare: il gesto significa tutto e nulla. Per questo, come il pittore certamente voleva e come forse a suo modo anche lui era costretto a fare, mai smetteremo di chiedercelo.
 
Un altro gesto colto nella spontaneità della vita che l’opera sospende e trasferisce al suo gestante si ricava da Un cieco che tasta, disegno di Rubens che risale al 1619-1620, conservato all’Albertina di Vienna, in cui vediamo un uomo che, non potendo contare sulla vista, avanza a braccia tese.

 

 
L’artista non poteva pingere questa figura senza esser lei. Rubens qui offre, senza volerlo, anche l’immagine del pittore che, proprio come una gestante nella cecità della sua oscura operazione creativa, porta alla luce gesto e figura contemporaneamente, mostrando il gesto al di là di ogni significato in cui esso possa trovarsi eventualmente irretito. Un pittore che riesca a essere un cieco che brancola nel buio, gestandone con naturalezza la figura, rappresenta forse la guida paradossale ad una possibile ontologia del gesto.