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Teoria del gesto
di Emanuele Dattilo
 
In queste note vorrei approfondire alcune considerazioni di Walter Benjamin sul gesto. Vorrei, cioè, riprendere il discorso benjaminiano, non soltanto per cogliere la centralità di questa idea all’interno del suo pensiero e liberarne quelli che mi sembrano essere i punti decisivi, ma anche per svolgerne le implicazioni al di là della stessa teoria benjaminiana. Penso che Benjamin possa servirci a esporre, nella forma più circoscritta, alcune delle idee che abbiamo svolto nel corso del nostro seminario.
Piuttosto che enumerare e riportare i vari luoghi in cui Benjamin ha corsivamente trattato l’idea di gesto, e tentare di darne una sintesi esauriente, mi vorrei concentrare su due peculiari definizioni o aspetti che sono stati già trattati ieri, e che mi sembra abbiano in Benjamin un contributo fondamentale: il gesto teatrale come paradigma etico, in rapporto al carattere, sottratto alla sfera che superficialmente chiameremmo estetica, e il gesto come condizione di possibilità della lingua.

In questo modo vorrei affermare che il gesto:
1) È una categoria che va in qualche modo strappata all’estetica e restituita all’etica, mostrando in questo modo l’estrema vicinanza tra questi due ambiti. Il gesto si lega inevitabilmente alla questione del carattere, e mostra una risoluzione di questo problema. Dove l’azione definisce sempre un soggetto, un destino, il cui carattere è del tutto privo di importanza, il gesto mira invece alla mostra e con ciò alla liquidazione del carattere. Dove la tragedia, dunque, rappresenta lo svolgersi delle azioni da parte di un destino, la commedia rappresenta per Benjamin l’esposizione di un carattere attraverso alcuni gesti. Ma se nella tragedia le azioni rendono tale un destino, il carattere non è del tutto identificabile con i gesti. Il gesto, così come lo possiamo comprendere, ad esempio, nel saggio su Kafka, supera infatti le aporie del destino e del carattere, in quanto quel carattere esposto viene infine liquidato dal gesto, lasciando intravedere un soggetto diverso che Benjamin chiama «anonimo». Il gesto dunque non produce mai un destino, e al contempo libera l’uomo dalla soggezione al carattere.
2) Il gesto non è un fatto semplicemente fisico e corporeo e non va ridotto a una possibilità del corpo. La gestualità che Benjamin ha in mente è alla base anche, come vorrei qui mostrare, del linguaggio, e costituisce il primo istinto espressivo di cui la lingua è specchio. Il gesto è la condizione di possibilità della lingua, ciò che ne permette lo svolgimento e il funzionamento. Il linguaggio si basa sulla fondamentale capacità mimetica, come Benjamin sostiene, ed è un deposito di «somiglianze immateriali», mima e imita in una certa misura il mondo che nomina. Non ne imita tuttavia la statica costituzione materiale, bensì le capacità espressive e gestuali, il darsi espressivo e spirituale delle cose. Il linguaggio cerca di afferrare il modo in cui le cose imitano se stesse, si duplicano e rendono comunicabili. Dove gli animali hanno una capacità mimetica più perfetta, l’uomo usa il linguaggio, che imita non le cose in sé, ma i gesti delle cose. La reine Sprache, potremmo dire, è una lingua gestuale (non nel senso che sia fatta di gesti, ma nel senso che è una lingua restituita al suo carattere gestuale).
 
La relazione tra gesto e azione è enunciata da Benjamin in particolare in un testo sul teatro epico brechtiano, uno dei luoghi in cui Benjamin si diffonde più estesamente sull’idea. In un frammento preparatorio per questo studio, Benjamin definisce il gesto come il materiale – termine importante, che ricorre tre volte in questo brevissimo appunto – e il teatro epico come «l’utilizzazione appropriata di questa materia (zweckmässige Verwendung dieses Materials)». Di che tipo di gesto si parla qui?
Benjamin definisce il gesto affermando che esso è ritrovato (vorgefunden) nella realtà quotidiana. Ciò è importante perché distingue nettamente la teoria del gesto che qui si vuole enunciare da una qualsiasi presunta ritualità e sacertà del gesto teatrale. Il gesto del teatro epico non ha assolutamente un carattere sacrale, non ha un significato aggiunto, né è un gesto particolare distinto tra gli altri: è semplicemente un gesto qualsiasi, inappariscente e quotidiano, ma ritrovato. «Materia grezza (Rohmaterial)» del teatro epico è il gesto «che si può incontrare oggi (der heute vorfindliche Gestus)», categoria che Benjamin specifica come «il gesto di un’azione o l’imitazione di un’azione». In realtà, approfondendo questa idea, Benjamin enuclea immediatamente quello che rappresenta il punto più importante della sua trattazione: «Otteniamo tanti più gesti, quanto più spesso interrompiamo qualcuno in azione (Gesten erhalten wir umso mehr, je häufiger wir einen Handelden unterbrechen») (GW 2, p. 1381). Il gesto non è quindi qualcosa di veramente contrapposto all’azione, ma è ciò che emerge una volta che le azioni siano interrotte. Il gesto è insieme ciò che interrompe e ciò che resta una volta che le azioni siano interrotte.  
Un’altra caratterizzazione che Benjamin enuncia, ma su cui non ci concentreremo, è che il gesto ha una trasparenza che va oltre il piano delle parole e delle azioni, non si può situare entro nessuna di queste categorie. «Nei confronti delle dichiarazioni e asserzioni del tutto ingannevoli della gente da un lato, nei confronti della plurivocità e imperscrutabilità delle sue azioni, il gesto ha due vantaggi. In primo luogo può essere falsificato solo in una certa misura, e lo può tanto meno quanto è inappariscente e abituale. In secondo luogo è possibile fissare il suo inizio e la sua fine, a differenza delle azioni e imprese degli uomini».
Il gesto proprio del teatro epico non consiste in dichiarazioni e non è una serie di azioni, e proprio per questo «è falsificabile (verfälschbar) solo in certa misura», in quanto si pone al di là della antinomia tra queste due categorie. Esso non è falsificabile perché è chiuso in sé, non ha altro referente che sé medesimo. Dove gli enunciati possono essere falsi, e le azioni possono essere infinitamente interpretabili, il gesto rappresenta una terza possibilità, esso sfugge alla ridda delle interpretazioni senza tuttavia essere ambiguo.  
Qualcosa di simile a questa idea teorizzata nel saggio su Brecht è ripresa da Benjamin nel Programma per un teatro proletario dei bambini: «l’innervazione creativa (schöpferische Innervation)», dice Benjamin, è il punto di contatto tra ricezione e creazione; in ogni gesto infantile si ripete questa perfetta congiunzione di ricezione e creazione proprio perché non vi è un soggetto chiuso, inscalfibile a fare l’esperienza, o meglio perché quell’esperienza non lascia un soggetto dietro di sé. Il bambino non è mai prodotto da ciò che fa, non si pone mai davanti al suo gioco o a ciò che ha fatto come un soggetto produttivo, proprio perché il suo gioco è intimamente legato alla sfera del gesto.
Il gesto infantile inoltre, dice Benjamin, è un segnale; non però un segnale dell’inconscio, come si potrebbe facilmente affermare, bensì il segnale «di un mondo nel quale vive e comanda il bambino». Questo mondo è sancito da nient’altro che gesti, e per questo resta ininterpretabile. Vi sono dei segni, ma questi segni non lasciano intravedere nessun soggetto che li possa assumere o darne significato. Così un mimo o un film muto non è interpretabile a partire dai gesti, ma si risolve integralmente in quei gesti stessi: il gesto – come è stato sottolineato più volte nel nostro seminario – non è un segno, non ha senso domandare di un qualsiasi gesto quotidiano, che sia una carezza o un pugno o un tic, che cosa significhino. Essi prosciugano il significato fino a rendersi trasparenti. Espongono il sentimento umano al di là della sfera prettamente psicologica e individuale. I gesti significano soltanto loro stessi, non possono essere interpretati e non rimandano ad alcun codice (dove spesso, invece, si tenta di catturarli in quanto comunicativi). La sfera dei gesti rituali andrebbe indagata in questo senso.
Il gesto ha la capacità fondamentale di interruzione (Unterbrechung) dell’azione, si definisce anzi attraverso questa capacità. Il carattere chiuso del gesto fa sì che non vi sia la possibilità di inserirlo nel continuum dell’azione e del significato, che esso resista a essere inserito in una serie temporale. «All’attimo del gesto è destinata ogni prestazione infantile», dice Benjamin nel teatro proletario per bambini.
Non occorre qui sottolineare quanto questa idea di interruzione (Unterbrechung) abbia un ruolo fondamentale nel pensiero di Benjamin, e situi quindi la potenza gestuale ben al di là del contesto prettamente teatrale, in un contesto di filosofia della storia. Messianico, potremmo dedurre da queste considerazioni, è il gesto. Non esistono azioni messianiche, o soggetti messianici, bensì solo gesti messianici. Ciò vuol dire anche che il messianico non è un’altra dimensione rispetto a quella del continuum delle azioni, ma è ciò che resta una volta che quello sia interrotto. Rispetto alla storia come sequenza continua di azioni, la capacità di interruzione propria del gesto mostra un’altra capacità di intendere la medesima storia.
Ritorniamo, però, al primo punto che abbiamo enunciato all’inizio, e che rappresenta a mio avviso uno dei punti più importanti della nostra questione: la relazione problematica tra gesto, commedia e carattere, e la relazione speculare tra azione e destino. In un testo famoso su Destino e Carattere, Benjamin afferma l’appartenenza di queste due categorie alla tragedia e alla commedia.
Dove la colpa tragica è assunta da un destino, che la deve in qualche modo assumere e interpretare rispetto al proprio vissuto, il carattere viene esibito e semplificato nella commedia, e lascia intravedere un nuovo soggetto etico, un soggetto che Benjamin definisce “anonimo”, al di là tanto del destino quanto del carattere. «La sublimità della commedia di carattere riposa su quest’anonimità dell’uomo e della sua moralità pur mentre l’individuo si dispiega al massimo nell’unicità del suo tratto caratteristico».
La commedia di carattere si avvicina soltanto a questo soggetto etico, senza tuttavia afferrarlo veramente. Il teatro gestuale che Benjamin pensa, invece, con Brecht o con Kafka, è un teatro che va nella direzione indicata dalla commedia, sviluppando tuttavia quei punti che la commedia di carattere lascia irrisolti.
Affermare il valore etico del carattere e della commedia è una delle straordinarie idee di questo saggio benjaminiano, in netta contrapposizione alla classica posizione aristotelica, che affermava decisamente l’estraneità del carattere alla dimensione etica, in quanto questa si identifica soltanto con l’azione, e da ciò la priorità della tragedia sulla commedia.
La tragedia, sostiene Aristotele, è «imitazione non di uomini, ma di azioni» (Poet. 1050a 16-17). In un passo successivo, che riassume perfettamente tutta l’etica aristotelica, viene detto:

«Così pure, nella vita umana, la felicità come l’infelicità consiste nell’azione, e il fine della vita è azione, non qualità (to telos praxis tis estin, ou poiotes): gli uomini sono qualificati secondo i loro caratteri, ma sono felici oppure il contrario secondo le loro azioni. Quindi non svolgono l’azione scenica per riprodurre i caratteri, ma attraverso le azioni assumono (symperilambanousi) i caratteri. Perciò i fatti e il racconto sono il fine della tragedia, e il fine è precisamente il punto capitale (1050a 17-23).»

Come si può vedere, in questo passaggio Aristotele esprime uno dei punti fondamentali di tutto il suo pensiero etico, che mostra qui il suo approdo poetico, ossia il legame tra felicità e prassi. Essere felici significa, secondo la concezione aristotelica, agire, esercitare una certa attività (attività che però coincide propriamente con una praxis e non con una poiesis; cfr. Eth. Nic. 1176a 30-35); virtù e vizio, felicità e infelicità, dipendono dall’agire che l’uomo ha in suo potere. Mentre in Platone la dimensione etica – se si può dire così – si realizza su un piano soprattutto conoscitivo e cosmico (il Bene è infatti, prima di tutto, oggetto di contemplazione a cui l’uomo si intona metafisicamente e quindi praticamente), e non esiste mai in quanto separata da questa dimensione, con Aristotele per la prima volta diventa un fatto eminentemente pratico (Eth. Nic. 1096b-1097a); da ciò deriva, sul piano drammatico, la possibilità di essere ripetuto e imitato. Il Bene non si comunica all’uomo, non è una sua qualità e non concerne la sua propria natura, ma si definisce attraverso una serie di azioni che lo rendono felice o infelice. Con ciò Aristotele ha inteso precludere al carattere qualsiasi partecipazione alla felicità e alla virtù. È questa priorità dell’atto e dell’azione sull’essere, nell’etica aristotelica, che definisce, a tutti gli effetti, l’importanza della tragedia: «le azioni (pragmaton) sono la prima cosa e la più importante della tragedia» (1050b 22-23).
In quanto non sono identificabili esattamente con il carattere né con la natura umana, gli atti che l’uomo compie possono essere imitati, ripetuti, possono essere svolti e intrecciati, sono aperti a uno spazio che è visibile e condivisibile, che permette una qualche immedesimazione anche tra uomini diversi. La tragedia mostra il nesso colpevole tra un soggetto e alcune azioni, il modo in cui il soggetto tragico «diventa ciò che è», felice o infelice.
Ora, a me sembra che il gesto possa essere contrapposto del tutto a questo paradigma aristotelico, in quanto mostra attraverso il carattere il modo in cui si diventa ciò che non si è.
Il gesto ha un carattere etico proprio perché rende conto del carattere, che lo esponga comicamente o che lo liquidi.
Il carattere infatti non viene assunto nella commedia, al modo del destino, bensì viene liberato. Il carattere rappresenta quella sfera intima della persona, eppure non individuale, come la propria camminata e la propria voce ascoltata in un nastro, che non può mai essere assunta veramente, che non possiamo mai integralmente riconoscere come nostra. Per questo il gesto che lo esprime è anche il gesto che lo libera, che libera il soggetto dalla propria soggezione a sé, dall’esperienza spaventosa del riconoscimento di sé.
I gesti del carattere non sono in alcun modo dovuti, non hanno all’interno della commedia alcuna irresistibile necessità. Il carattere comico è preso in una particolare situazione: qualsiasi azione egli faccia, deve dimostrare quel suo determinato carattere. Tuttavia, il suo carattere non è determinato o spinto ad alcuna azione necessaria, niente lo costringe ed egli dimostra anzi sempre la sua varia libertà di agire imprevedibilmente. Sempre l’avaro dimostrerà di essere avaro (ed è questo a costituire la monotona prevedibilità dei canovacci comici), ma non sarà tuttavia determinato dalla propria avarizia ad alcune azioni precise e irrevocabili. Anzi, le azioni sono subordinate al carattere. Egli mostra qualcosa, nei suoi gesti, un modo di essere, ma quel modo di essere se stessi sfugge ed evapora sempre via da quei gesti.
Ma in realtà Benjamin, come abbiamo accennato, sembra pensare qualcosa che vuole superare questa stretta dipendenza del gesto e del carattere, sembra cioè voler pensare un gesto che liberi anche il carattere, al di là della sua rappresentazione comica. Che cosa significa “liberare il carattere”? Il teatro gestuale pensato da Benjamin, a partire da Brecht, da Kafka o dal teatro proletario per bambini, pur non potendosi certamente chiamare comico e avendo ben poco a che fare con la commedia per come noi siamo abituati a intenderla, è ugualmente strettamente connesso con la liquidazione del carattere. Esso non lo esibisce attraverso alcuni tratti grotteschi e esagerati, bensì lo libera nei gesti. Benjamin intuisce che la soluzione comica è liberatoria solo in parte. Né attraverso le azioni né con la semplice esibizione del carattere noi possiamo raggiungere la felicità, bensì solamente attraverso una serie di gesti come quelli infantili, in cui ci liberiamo da noi stessi.
Di Karl Rossmann, il protagonista di Amerika, Benjamin dice: «Trasparente, puro, addirittura privo di carattere è infatti Karl Rossmann nel senso in cui Franz Rosenzweig, ne La Stella della Redenzione, dice che in Cina l’uomo interiore è addirittura “privo di carattere […] Ciò che distingue l’uomo cinese è qualcosa di affatto diverso dal carattere: una purezza elementare di sentimento”. Comunque ciò si debba spiegare teoricamente – forse questa purezza di sentimento è un equilibrio particolarmente raffinato del comportamento mimico – in ogni caso il teatro naturale di Oklahoma rimanda al teatro cinese, che è un teatro mimico. Una delle funzioni più importanti di questo teatro naturale è la risoluzione dell’accadere nel gesto».
Il teatro di Oklahoma, come il teatro brechtiano e il teatro per l’infanzia, rappresentano dei gesti che non lasciano residui, che eliminano anche il carattere. La «purezza elementare di sentimento» del senza carattere è espressa dal teatro cinese, dal teatro mimico, privo di dramma e di psicologia. Il puro gesto ha qui il senso di non lasciare traccia, esattamente come quello del saggio cinese citato, e quello dei bambini del teatro proletario.
Il gesto che tentiamo qui di definire dunque compie un passo in più rispetto alla commedia di carattere, ad esempio di Molière, che resta ancora dentro i meccanismi della commedia, esponendo e esibendo il carattere attraverso alcuni gesti esagerati e caricaturali: il teatro naturale abbandona il carattere, lasciando intravedere finalmente il soggetto ormai puro e anonimo. I personaggi kafkiani sono personaggi senza carattere nel senso che essi vivono completamente nei propri gesti, l’elemento comico che li concerne non riguarda più il loro carattere, bensì la loro innocenza, infantile e animalesca. Il gesto kafkiano «unisce la massima enigmaticità alla massima semplicità come un gesto animale». Se nel carattere è ancora possibile rinvenire lontanamente una eco, seppure rovesciata, della colpa tragica, qui essa è ormai del tutto dissolta nel gesto.
Il secondo punto che vorrei trattare, e che mi limiterò qui solo a enunciare brevemente, è quello che ho esposto all’inizio, e che si basa sull’idea del gesto come condizione di possibilità della lingua.
In un saggio celebre sulla facoltà mimetica, Benjamin espone l’idea che il linguaggio si basi sulla capacità di produrre e riconoscere somiglianze. Questa capacità mimetica, che anche gli animali hanno, è alla base del linguaggio parlato come del linguaggio scritto. La danza è, in origine, questa tensione a imitare perfettamente con il corpo e con i gesti. Esattamente come abbiamo visto per i bambini, dove l’innervazione creativa è insieme ricezione e azione, così la facoltà mimetica rappresenta una capacità originaria dell’umanità: la più pura forma di creazione non è qui differente dalla imitazione, l’atto di leggere è più originario dell’atto di scrittura (anzi, si potrebbe dire che l’atto di scrivere non è che un atto mimetico di ciò che si legge). Questa capacità mimetica è la trasparenza, e se vogliamo riprendere il punto precedente, corrisponde all’assenza di carattere. Che cosa si fa quando si imita? Il comportamento mimetico non è un fenomeno sociale, come in Girard, che presuppone alcuni soggetti-sostanze che assecondano o recedono dal proprio originario mimetismo. Per Benjamin, invece, è proprio questa originaria facoltà mimetica che rende vano ogni tentativo di districare un soggetto, e non è assolutamente riducibile al fatto sociale: «Il bambino non gioca soltanto a fare il commerciante o il maestro, ma anche il mulino a vento o il treno». Sono le cose a essere mimetiche, a produrre somiglianze, a rendersi imitabili, molto prima che gli uomini le colgano e le rendano attraverso il linguaggio.
Qui, come altrove, Benjamin espone un pensiero della mimesi che dimostra di essere, come è stato mostrato nel nostro seminario, genuinamente platonico. Ma che cosa imita un nome? Non bisogna pensare questo gesto come univoco, come se noi, parlando, gesticolassimo rozzamente un elemento prelinguistico. Che cosa dice la parola “vaso” del vaso che abbiamo davanti agli occhi? Esso non può afferrarne certamente il suo essere e la sua consistenza materiale, ma ne imita in una certa misura il gesto, la sua capacità dinamica di darsi nel linguaggio (quella che Benjamin chiama in un altro scritto la «lampada nel linguaggio»). Noi possiamo imitare solo perché le cose si comunicano gestualmente, esse stesse si imitano, ossia si rendono comunicabili. Il linguaggio stesso, nella sua funzione propriamente onomatopeica, rappresenta per Benjamin la capacità di cogliere quelle che egli chiama “somiglianze immateriali”. «È la somiglianza immateriale che fonda le tensioni non solo fra il detto e l’inteso, ma anche fra lo scritto e l’inteso, e altresì fra il detto e lo scritto». Le somiglianze immateriali hanno cioè un carattere dinamico, che definisce le tensioni presenti nella lingua, prima tra tutte la traducibilità delle lingue medesime.
Le somiglianze, le imitazioni, i modi in cui le lingue intendono la stessa parola, sono somiglianze gestuali. Tradurre significa tradurre un gesto. La facoltà mimetica rappresenta l’unione di lettura e scrittura, allo stesso modo in cui il gesto rappresenta – come abbiamo visto nel testo sul teatro proletario per bambini – l’unità perfetta di ricezione e azione.
Nel saggio sui problemi di sociologia del linguaggio, Benjamin riporta l’idea di Richard Paget per cui «l’elemento fonetico è fondato su quello mimico-gestuale». Sviluppando questa idea, Benjamin prosegue citando un testo celebre di Valéry, L’âme et la danse, in cui Valéry – cito Benjamin – «vede le radici dell’espressione linguistica e di quella che avviene attraverso la danza in una sola, identica facoltà mimetica», e  «tocca le soglie di una fisiognomica del linguaggio che va molto oltre i primitivi tentativi della teoria onomatopeica». Che cosa è questa fisiognomica del linguaggio, che Benjamin auspica?
Il linguaggio è il deposito delle somiglianze immateriali, di quelle somiglianze che non possiamo scorgere e che non possiamo riprodurre semplicemente attraverso il nostro corpo. Il limite del nostro corpo e del nostro movimento rappresenta in qualche modo l’inizio della facoltà mimetica propria del linguaggio. Ciò non significa che il linguaggio comincia là dove il gesto finisce, che ne costituisca un superamento, ma al contrario, che il linguaggio raccoglie quei gesti che non siamo capaci di imitare con le mani e con le espressioni, tutto ciò che non siamo ancora capaci di danzare.