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I gesti del mimo
di Nicoletta Di Vita

Il mimo in questi giorni è stato evocato molte volte. In effetti esso è, come l’esperienza anche superficiale di ciascuno induce a riconoscere, lo spazio più proprio, il luogo naturale dei gesti. Il mio intervento è pertanto forse quello che, più di ogni altro, è il risultato di un lavoro comune. Al fine tuttavia di evitare di operare qui una mera ricapitolazione delle cose già dette, cercherò di concentrarmi su due aspetti che ci sono parsi decisivi, e che in questi giorni sono emersi senza essere approfonditi.
L’uno ha a che fare con la questione, cui abbiamo più volte accennato, del carattere: si direbbe che il mimo sia ciò che rimane dell’arte drammatica quando tutto il resto è stato messo da parte, o disattivato, e null’altro è rimasto che il mero carattere. L’altro aspetto – al primo intimamente connesso – rivela lo statuto del mimo quale “paradigma” (nel senso platonico del termine), quale luogo cioè di esibizione della stessa intelligibilità.
Invece di considerare il mimo in un senso generico, mi è parso utile prendere a oggetto di studio una precisa esperienza storica del mimo, ovvero il mimo antico elaborato da Sofrone, un mimografo siracusano vissuto nel V sec. a. C. La ragione principale per la quale guardo al mimo di Sofrone è che, come è emerso da uno studio sui frammenti recentemente condotto insieme a Elenio, non soltanto esso rappresenta la prima esperienza del genere mimico nel mondo antico ma, come forse vi è noto e come moltissime testimonianze riportano, esso venne conosciuto da Platone e da lui fortemente amato. Così scrive ad esempio Diogene Laerzio: «pare che Platone per primo abbia portato ad Atene i libri, fino ad allora trascurati, del mimografo Sofrone, e che da questo abbia tratto il modo di comporre i caratteri. Si dice, inoltre, che questi libri furono ritrovati sotto il suo cuscino» (III, 18).
 
Che cos’è dunque un mimo?
 
 
I.
 
Dobbiamo immaginare il mimo sofroneo come avente le seguenti caratteristiche: esso consisteva in una breve scenetta; i personaggi, i caratteri (gli ēthē, appunto) erano tutti personaggi familiari, tratti perlopiù dall’ambiente siracusano (il tonnaroto, il contadino, la fattucchiera, il vecchio che si sta al porto, etc.). Nel riproporre la gestualità propria della figura rappresentata, gli attori mimici al contempo monologavano, oppure dialogavano, canzonandosi a vicenda, in un gergo sempre quotidiano e dimesso. Non vi era cambio di scena: tutto si svolgeva nel medesimo luogo, in un dato momento della vita giornaliera, e alcuno spazio era riservato a spunti lirici o a tonalità epiche.
Ciò che caratterizza massimamente il mimo è che in esso non accade assolutamente nulla. Esso è l’arte drammatica che ha sospeso ogni drama, ogni intreccio, qualunque narrazione di una storia. Ciò va inteso in un senso ben preciso: il mimo è, con le parole di Melina Pinto Colombo, «riproduzione di uomini e fatti quali sono e come sono» (Il mimo di Sofrone e Senarco, Firenze 1934); è il luogo dell’assenza di dramma, poiché manca di qualsivoglia drōmena, accadimenti. Al decorso drammatico del teatro è sostituita l’esibizione dell’atto: il mimo è un puro fare senza effetto, svolgimento senza trama e senza storia.
Se ciò è vero, è immediato intuire come il mimo sia in grado di esemplificare perfettamente ciò di cui andiamo alla ricerca. Cosa può infatti significare una scena, come è quella dei mimi sofronei, in cui non accade null’altro che la semplice ripetizione di un gesto – del più ordinario dei gesti?
 
Si noti che, a differenza del mimo quale siamo abituati a conoscerlo nel moderno, il mimo antico aggiunge in realtà alla gestualità la parola. Già ieri è stato messo in evidenza come il rapporto del gesto con il linguaggio non sia affatto lineare, rivelando dell’uno la clandestinità nell’altro, al di là della loro illegittima sovrapposizione nella sfera del semiotico. Nel caso del mimo di Sofrone la presenza della parola non crea affatto un indebolimento della sfera dei gesti. Il modo in cui la parola è ammessa, infatti, è tale che – come tutti i commentatori hanno dovuto osservare – linguaggio e gesto aderiscono nel personaggio in scena perfettamente. Se vogliamo ricorrere alle categorie di Jakob Engel di cui abbiamo parlato ieri, possiamo descrivere i personaggi messi in scena mimicamente come quelle figure il cui linguaggio non può essere separato dal carattere, in cui ha compimento l’aderenza fra, come Engel stesso avrebbe detto, pathos e logos.
 
Può essere utile, per situare il mimo rispetto al carattere, rileggere alcuni brevi passaggi dalla Poetica di Aristotele, che in parte sono stati già proposti da Emanuele nella sua lettura di Benjamin, e in cui è definita la materia propria della tragedia e, in controluce – giacché, come noto, non ne possediamo le parti relative, andate perdute – quella della commedia.
Scrive Aristotele:

«La mimesi dell’azione (tēs praxeōs) vera e propria è la trama (mythos). Chiamo “trama” l’ordinamento dei fatti (tēn synthesin tōn pragmatōn) […], che è la cosa più importante, poiché la tragedia è mimesi non di uomini, ma dell’azione (praxeōs) […]. Così la felicità della vita, o l’infelicità, è nell’azione, e il fine è una qualche azione, non una qualità: [gli uomini] sono come sono (poioi tines) secondo i caratteri (kata men ta ēthē); sono invece felici oppure il contrario secondo le azioni. Perciò non agiscono mimando i caratteri, ma assumono i caratteri a mezzo delle azioni. Sicché i fatti e la trama (ta pragmata kai ho mythos) sono il fine della tragedia, e il fine è la cosa più importante di tutte» (Poet. 1450a 4; 15-24).

 

Se la tragedia è «mimesi dell’azione», la commedia è, sviluppando il suggerimento aristotelico, qualcosa come una mimesi degli «uomini stessi», per i quali, a rigore, non conta la buona sorte (eudaimonia) (ascritta al regno della praxis), ma solo l’ethos, ovvero il loro essere «tali quali» come sono (poioi tines) secondo i caratteri (kata men ta ēthē).
All’inizio della Poetica Aristotele aveva inoltre distinto l’intera produzione poetica antica sulla base della qualità del proprio oggetto:

«Coloro che [vengono imitati], di necessità saranno seri, elevati (spoudaious), oppure persone dappoco (phaulos) – i caratteri infatti seguono quasi sempre questi due tipi […] La poesia si distinse così secondo i caratteri propri di ciascuno: i più austeri imitarono le azioni belle, di persone dello stesso tipo, i più corrivi quelli di persone dappoco» (Poet. 1448 a 1-3; b 24-26).

 
Ora, dobbiamo pensare al mimo come afferente a questa sfera del comico, nel senso in cui essa è stata prospettata da Aristotele. Almeno due elementi infatti il mimo condivide con la commedia (l’ascendenza dalla commedia per il mimo è peraltro storicamente testimoniata dalla parentela del mimo antico con la commedia siracusana di Epicarmo):
 
1) anzitutto (e ciò dovrebbe esserci ormai piuttosto familiare), mimo e commedia condividono, come chiarisce bene il passo aristotelico, l’assenza di un’azione come motore determinante della scena. Se ciò è vero per la commedia, lo è tanto più per il mimo: ciò che il mimo fa sulla scena non è altro che la mera ripetizione di un gesto, che è ogni volta il gesto proprio della figura (o “figurina”, come è stata più volte definita): il pescatore null’altro fa che muovere la lenza, il “vecchio che si sta al porto” – che è il titolo di una scenetta di Sofrone – non agisce null’altro che starsi al porto, ovvero precisamente ciò che Aristotele ha definito la mimesi di uomini «in quanto tali». Proprio del mimo è allora precisamente questo suo mero assumere schēmata: comportarsi secondo la propria figura, essendosi carattere, compiendo solo gesti e non conoscendo azione alcuna.
Ma – possiamo ora provare a chiederci – cosa ci dice questa integrale estraneità del mimo all’azione sulla natura del gesto?
“Gesto” assume qui, come intuibile, un senso che si direbbe integrale: quelli del mimo sono tutti gesti che comportano la sua figura, sono i modi di tenersi del carattere in quanto è quel carattere (Elenio e Monica hanno accennato, a ragione, all’etimo di schēma: al suo riferimento interno a questo tenersi, da echō, “l’aversi” in un certo modo). Questo non vuol dire certo che non vi sia carattere nelle altre arti drammatiche: ma il carattere, nel mimo, non è affatto compreso (non emerge né viene a darsi) dagli eventi drammatici, cui ci ha abituati ad esempio la tragedia – lo stesso Aristotele aveva detto: «assumono i caratteri a mezzo dell’azione»; bensì è nell’integralità del gesto che emerge (e nel modo più compiuto) il carattere stesso.
Il mimo, in quanto esposizione del carattere, si risolve interamente nella sfera dei suoi gesti.
Nel mimo accade dunque qualcosa di questo genere: che il carattere non si dà se non, immediatamente, nel gesto (ovvero come gesto) (immediatamente, e cioè non come se vi fosse un carattere quale entità in sé sussistente che possa poi venire ad emersione attraverso un qualche mezzo espressivo). Al di qua di ogni azione, gesto e carattere coincidono. E il mimo di Sofrone, e con esso tutti i mimi, non vuole che questo: esibire, mostrare il carattere, esibire dunque, mostrarsi in quanto costituito di gesti.
Il mimo è il luogo in cui l’azione, cui già gli antichi attribuivano liceità o illeceità, è esclusa, e ad essa è sostituita un’integrale «mimesi della vita (mimēsis toû biou)» (secondo la formula attribuita a Teofrasto), un’esibizione della vita in quanto sostenuta dal carattere. (Ieri si è un po’ accennato a questa idea del mimo – su una suggestione nel corso della discussione – come ciò che «ci ricorda che cos’è la vita»).
Possiamo allora riassumere questo primo modo di essere, il mimo, il luogo naturale dei gesti, dicendo che il suo linguaggio – come la sua prassi – non dicono, non agiscono alcunché; in essi il gesto, che (ormai da almeno due giorni) ha superato la soglia dell’azione, si è infine incamminato verso ciò che possiamo denominare “carattere”, sicché i gesti, come in un frammento superstite del mimo di Sofrone intitolato Angelos (Il messaggero), nient’altro fanno se non “annunciare”: esporre, gesticolandola, la vita del carattere.
 
2) Vi è però un secondo aspetto, apparentemente meno rilevante, che accomuna il mimo con la commedia (con la commedia per come l’ha presentita Aristotele nella Poetica). Si tratta della natura del suo oggetto, il quale, come abbiamo appena visto, è sempre basso, di poco conto, cosa dappoco (phaûlon). Aristotele aveva definito la commedia una «mimēsis phauloterōn» (mimesi delle cose più basse) (Poet. 1449a 32). Il personaggio mimico infatti, come inequivocabilmente mostrano i personaggi di Sofrone, è null’altro che l’uomo comune, colto nella sua stessa quotidianità, privo di eroicità e di ogni valore regale. Esso coincide cioè con l’apertura di uno spazio ove è possibile l’esibizione dei gesti integralmente umani dell'uomo. Si è parlato, per questo aspetto, di un “naturalismo” del mimo, soprattutto in riferimento al mimo antico, come è il caso di Karl Kerényi (Sophron oder der griechische Naturalismus, in Id., Apollon. Studien über antike Religion und Humanität, Düsseldorf 1953, pp. 134-56). Ma non vi sono ragioni per ascrivere al “naturalismo” una preferenza così evidente per le cose di poco conto (altrettanto naturalistico sarebbe, ad esempio, la mimesi di cose grandiose).
Allora se il mimo è anzitutto mimesi delle cose dappoco, come la commedia, ciò è perché certamente, e in primo luogo, esso ha abdicato a ogni intento moralistico o moraleggiante: le cose dappoco non sono né derise, né provocatoriamente esaltate: esse, semplicemente, sono. Il mimo si destina cioè alla mera presentazione delle cose di cui si rende ogni volta mimesi.
Cosa è in questione però in questa mera presentazione, nell’esibizione gesticolata della cosa mimata, al di là di ogni possibile determinazione?
Abbiamo tentato di dare una risposta a questa questione proponendo, per il mimo, la lettura come di un “paradigma”.
 
 
II.
 
In che modo infatti – e qui ci introduciamo nella seconda delle questioni di cui volevo parlarvi – il mimo è mimesi, ovvero è mimesi dei caratteri, è mimēsis toû biou?
Che cosa sia in questione nella mimesi dell’antico mimo è chiarito, così ci è parso, dalle parole dello stesso Kerényi, secondo il quale il mimo consisterebbe in

«un’immagine della vita (Lebensbild) retta da personaggi che discorrono e agiscono, la quale sussiste senza alcun intreccio drammatico. E soprattutto: tale genere mira a [nient’altro che] un’imitazione fedele alla natura (naturgetreue Nachahmung)» (p. 135).

Ciò sembra perfettamente confermare quanto abbiamo appena discusso. Specifica però Kerényi:

«ciò cui esso giunge è, per così dire, una “somiglianza spettrale” (eine gespenstische Ähnlichkeit)» (ibid.).

Il mimo cioè è mimesi del carattere in quanto assomiglia all’azione in modo spettrale (come un Gespenst, un “fantasma”).
È possibile, così ci è sembrato, avvicinarsi alla comprensione di questa natura mimetica del mimo, di questa spettrale relazione di somiglianza al suo oggetto, immaginandone un parallelo con un elemento essenziale della filosofia platonica.
 
Come forse ricorderete, nel dialogo Il Politico, composto al ritorno dal suo secondo viaggio in Sicilia (365 a. C.), Platone espone la questione della natura e dell’uso, per la filosofia, dei paradigmi («paradeigmata»), o “esempi”. Socrate il Giovane e lo Straniero di Elea si trovano a discutere in quel dialogo su quale sia la natura del “politico”. Dopo aver cercato invano una risposta a mezzo di un lungo racconto – è il celebre mito dell’età dell’oro e del pastore celeste di uomini –, si decidono a ricorrere a ciò che, da solo, pare in grado di dischiudere la conoscenza delle (come Platone stesso si esprime) «cose di maggior pregio». Come in un inatteso rovesciamento, Platone indica quel luogo rivelatore precisamente nel logos che abbia ad oggetto le «cose più piccole (en toîs elattosin)», che ricorra cioè ad un «esempio assai minuto»:

«è ben difficile, oh demonico, indicare in modo adeguato qualcosa delle più grandi (endeiknysai ti tôn meizonōn) senza far uso di paradigmi» (Pol. 277 d 1-2).

«Gli incorporali, infatti, che sono le cose più belle e più grandi, sono indicati in modo chiaro solo a mezzo del logos e con nient’altro […]. In tutte le cose, però, l’esercizio si rende più semplice nelle cose più piccole piuttosto che in quelle più grandi» (Pol. 286a 5 -b 2).

Con un’inedita trasposizione filosofica dell’esibizione sofronea dei caratteri (semplici, dimessi, persino ordinari), le cose dappoco ottengono di aprirsi all’intelligibilità dell’idea, e ciò proprio in virtù del loro rendersi “esempio”, della loro capacità di divenire paradeigmata.
 
Ancora nel Politico Platone chiarisce con, a sua volta, un esempio quale sia il vero significato del “paradigma”, della figura di poco conto che rende possibile al linguaggio l’approssimarsi all’espressione dell’idea. L’esempio proposto è quello di una sillaba, che risulta di difficile lettura per un fanciullo.
Leggiamo dunque il passo, che è, per chiarezza e scelte lessicali, assai istruttivo sulla nostra questione:

«Sappiamo che quando i fanciulli stanno apprendendo a leggere e a scrivere […] essi distinguono in modo soddisfacente ciascuna lettera nelle sillabe più corte e più facili […] Non riconoscendole, però, in altre, allora si sbagliano […] Il modo più bello e facile per condurli a ciò che non è ancora conosciuto [sarà, allora,] ricondurli a quei casi in cui avevano assunto correttamente le lettere, e ivi condotti, porli accanto (tithenai para) ai casi non ancora conosciuti, e, ponendoli accanto (paraballontas), indicare che in entrambe le combinazioni esiste la medesima somiglianza e natura (tēn autēn homoiotēta kai physin). Così, le cose assunte in modo vero (alēthôs) saranno mostrate nel loro esser-poste-accanto (paratithemena) a ciò che è ignorato, e diverranno così paradigmi (paradeigmata)» (Pol. 277 e 3 - 278 b 5).

La prima, più semplice, sillaba è così esempio di intelligibilità per la seconda. Tra le due non sussiste infatti una qualitativa, visibile somiglianza (non da una uguale lettura sono unite le due sillabe, composte da lettere differenti), ma solo un medesimo essere leggibile: la prima è detta paradigma della seconda solo in quanto ne è mero veicolo di intelligibilità. Ciò non significa altro, allora, che la cosa di poco conto vale in Platone come luogo di esibizione di quella intelligibilità, che sola consente di accedere alle cose «di maggior conto».
 
Ancora un esempio ci aiuta a comprendere il meccanismo paradigmatico per come è inteso da Platone. Nel dialogo Il Sofista è il pescatore ad essere chiamato in causa in quanto figura paradigmatica del sofista.
Come già nei casi precedenti, quello del sofista è, nuovamente, un genere «difficile e assai sfuggente»; per questo il Forestiero consiglia «di esercitarsi per prima cosa nel metodo per mezzo di qualcos’altro che sia più agevole (en allōi rhaioni. I due interlocutori, Teeteto e lo straniero, decidono così di interrogare «qualcosa che sia di poco conto» – Platone dice proprio «peri tinos tôn phaulōn», qualcuna delle cose dappoco. Nel farlo, essi tornano a specificare la volontà di «porlo a paradigma di ciò che è più grande» (Soph. 218 d 8-9). Il Forestiero non esita infatti a domandare: «E che cosa mai potremmo allora proporre di più piccolo, e ma ben noto a tutti, tale da esigere per questo un discorso per nulla inferiore a ciò che è più grande?». E suggerisce: «propongo, ad esempio, il pescatore con la lenza: non è infatti a tutti noto e non proprio degno di grande fatica?» (Soph. 218 e 1-5). Come sappiamo, attraverso il paradigma del pescatore il sofista sarà scoperto essere un «attore della caccia» – la sofistica sarà infatti definita nei termini di una «caccia ai giovani ricchi e nobili» (Soph. 223b 4-5).
 
Proviamo adesso a tornare al nostro mimo.
 
Due questioni mi sembrano, in conclusione, per noi rilevanti in questi insistenti tentativi di Platone di individuare la natura del “paradigma”. Accanto al criterio della cosa «dappoco» e all’esibizione dell’intelligibilità in questione nei paradigmi, apprendiamo infatti che:
 
1) per comprendere quale rapporto unisca le sillabe che il fanciullo ha da apprendere, e quindi, analogamente, quale rapporto intercorra tra pescatore con la lenza e sofista, Platone fa ricorso a un’espressione che ora dovrebbe apparire notevole. In un passaggio del Politico in cui è reintrodotto l’esempio delle lettere, il Forestiero aveva insistito sulla distinzione tra una «somiglianza percettibile (aisthētai homoiotētes)» e, come si evince dall’opposizione che segue, il suo contrario (cfr. Pol. 285e). «Per le cose di maggior pregio», vi è specificato, «non v’è alcun eidōlon che possa saziare l’anima». Per questo il paradigma, la cui funzione è quella di mostrare che «esiste la medesima somiglianza (tēn autēn homoiotēta)», non può limitarsi a essere un somigliare sensibile, nell’ordine delle immagini.
La cosa dappoco, in quanto paradigma di un’altra, somiglierebbe a quest’ultima in modo impercettibile.
Non possono non risuonare le parole che già Kerényi aveva dovuto adoperare per il mimo sofroneo: ciò che vige fra l’azione e il mimo – e dunque ora, in analogia ad esso, fra l’ordine dei sensibili e quello delle idee – è, con Kerényi, una forma spettrale, cioè mimica, della somiglianza.
 
2) Il secondo aspetto è che Sofrone stesso ci ha fornito, anche con una certa insistenza (i frammenti attestano almeno tre mimi a questo soggetto) un mimo del pescatore (non sarebbe forse peregrino pensare che Platone vi si fosse ispirato per la figura paradigmatica del pescatore nel Sofista). Come sappiamo, il mimo, a differenza ad esempio di un attore nel medesimo ruolo di un pescatore, non fa nient’altro che ripetere il gesto del pescare, senza tuttavia mai giungere a compimento dell’azione, senza ad esempio afferrare alcun pesce e tuttavia, come abbiamo visto, sollevando di tanto in tanto la lenza oppure parlando, come nel caso di Sofrone appunto, parole di pescatore. Ciò che fa il mimo di un pescatore non è altro che ripetere il gesto del pescatore, ovvero nient’altro che esibirlo: il suo somigliare alla cosa (la sua mimesi) coincide con il modo di essere un paradigma: esemplare per ciascuno dei gesti compiuti da ogni pescatore, in grado di rendere intelligibile, con il gesto, il carattere del pescatore stesso.
È per questo che anche il senso di “mimesi”, che sta alla base del genere mimico, necessita di essere precisato. Se è vero che il mimo propriamente non “produce” alcunché, non crea né personaggi né storie, è vero anche che esso a rigore nemmeno ne “riproduce”, intendendo piuttosto mostrare paradigmaticamente ogni carattere nella propria specificità e nel mero essere quel carattere. La mimēsis, come aveva già intuito Derrida, «prima ancora di poter essere tradotta con “imitazione”, significa la presentazione della cosa stessa, della natura, della physis che si produce, che si genera e che appare (a sé) in quanto tale».
 
Il genere teatrale minore del mimo è, così, il luogo esemplare in cui il gesto si mostra per ciò che è: nell’interruzione di ogni azione, nel risolversi integralmente nella sfera del carattere, esso è, a un tempo, mera esibizione paradigmatica di ciò che è in questione, senza altre determinazioni né ulteriori finalità.