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Seminario su bilinguismo e poesia
di Giorgio Agamben

L’ipotesi che orienta il nostro seminario è che vi sia un bilinguismo immanente alla poesia, che la poesia implichi costitutivamente una diglossia. E che, più generalmente, vi sia un bilinguismo interno a ogni lingua, che definisce la sua vita e il suo incessante morire.
Non si tratta di un’ipotesi peregrina, poiché essa è stata formulata alle origini della poesia italiana da Dante nel De vulgari eloquentia. Qui (I, I, 2) egli distingue immediatamente due lingue: una prima, che chiama «volgare», che «i bambini apprendono da chi sta loro intorno appena cominciano a distinguere le voci (vulgarem locutionem appellamus eam qua infantes assuefiunt ab assistentibus cum primitus distinguere voces incipiunt)», ovvero «che senza nessuna regola riceviamo imitando la nostra nutrice (quam sine omni regula nutricem imitantes accipimus)»; una seconda, «per noi secondaria, che i Romani chiamavano grammatica, che anche i Greci avevano, ma non tutti i popoli hanno (hanc quidem secundariam Greci habent et alii, sed non omnes), nella quale siamo regolati e istruiti solo attraverso uno spazio di tempo e assiduità di studio (non nisi per spatium temporis et studii assiduitatem regulamur et doctrinamur in illa)» (ibid.), e che è stata inventata «per sopperire alla mutevolezza della prima secondo l’arbitrio dei singoli (propter variationem sermonis arbitrio singularium fluitantis)» e per assicurare alla lingua «una certa inalterabile identità nella diversità dei tempi e dei luoghi (quedam inalterabilis locutionis ydemptitas diversis temporibus atque locis)» (I, IX, 11).
«Di queste due lingue» aggiunge Dante «la volgare è più nobile, sia perché fu usata per prima dal genere umano, sia perché tutto il mondo se ne serve, benché sia divisa in differenti pronunce e vocaboli; e inoltre perché è per noi naturale, mentre l’altra è piuttosto artificiale» (I, I, 5). Nello stesso senso aveva detto nel Convivio (I, XII, 4) che il volgare «uno e solo è prima ne la mente che alcun altro» e, per questo, «massimamente prossimo a ciascuno» (ibid.).
A questo bilinguismo, che definisce la sua propria condizione, Dante ne aggiungerà, come vedremo, un altro, quello fra «volgare municipale» e «volgare illustre».

Una prima osservazione sulla «lingua secondaria»: come risulta dalla definizione che Dante ne dà, la grammatica, che, nella sua esperienza linguistica, era esemplificata dal latino, non coincide necessariamente con questo, ma è, in ogni lingua parlata, che muta incessantemente e «non può mai star ferma (nec stare ullo modo potest)» (I, IX, 10), il tentativo di fissarla attraverso regole e scrittura, perché resti comprensibile di generazione in generazione. «Onde vedemo» scrive Dante nel Convivio (I, V, 9) «ne le cittadi d’Italia, se bene volemo guardare, da cinquanta anni in qua molti vocaboli essere spenti e nati e variati […] sì ch’io dico, che se coloro che partirono d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante». Anche se il concetto di una “morte della lingua”, che apparirà solo con gli umanisti, non esisteva ancora, Dante ha un’acutissima coscienza del continuo nascere e morire delle lingue, a tal punto che, ancora nella Commedia, mette sulle labbra di Adamo un giudizio perentorio sulla mutevolezza e caducità delle lingue: «la lingua ch’io parlai fu tutta spenta / […] ché l’uso de’ mortali è come fronda / in ramo, che sen va e altra vene» (Par. XXVI, 124-137).
In questo, le sue intuizioni sul bilinguismo anticipano le conclusioni dei linguisti moderni, i quali sanno che ogni lingua nel suo svolgimento storico muore continuamente dando vita al suo interno a un’altra lingua: così, in seno al latino, il sermo rusticus convive con quello urbanus e a poco a poco, mentre questo muore (malgrado gli sforzi dei dotti di fissarlo in una grammatica), esso progressivamente si emancipa e finisce col sostituirlo, dando vita a sua volta ai volgari neolatini. Ma, al di là di questo bilinguismo diacronico, che porta una lingua a trasformarsi progressivamente e a morire in un’altra che da essa nasce, vi è un bilinguismo per così dire interno e sincronico, che coincide con la forma stessa in cui una lingua vive: in ogni istante, in ogni atto di parola, essa nasce e continuamente muore, la morte di una lingua è la vita dell’altra. Sorgività della parola e morte della lingua sono intimamente congiunte.

È della natura e del significato poetico di questo bilinguismo interno alla lingua che ci occuperemo nel nostro seminario. Ma seguiamo l’argomentazione attraverso cui Dante, nel De vulgari eloquentia, a partire dall’opposizione volgare/grammatica cerca di definire quello che chiama «volgare illustre».
Innanzitutto è bene non dimenticare che Dante, in ogni sua opera senza eccezioni e non solo nel De Monarchia, è un pensatore politico. Non s’intendono né la Commedia né il De vulgari se non li si vedono nascere dalla consapevolezza di un’impasse politica, in cui la possibilità o l’impossibilità della poesia e del volgare illustre è in tensione con l’impossibilità o la possibilità di un’azione politica. (In questo la situazione di Dante presenta qualche analogia con quella di Platone, che, nella Settima lettera, lega il suo dedicarsi alla filosofia alla consapevolezza dell’impossibilità di ogni azione politica nell’Atene del suo tempo). Che di questo significato anche politico di un’opera come il De vulgari fossero già coscienti i suoi primi lettori è attestato da un singolare fatto codicologico, su cui ha opportunamente richiamato l’attenzione Corrado Bologna. Nel più antico codice che ci ha trasmesso il trattato (il codice berlinese B), esso non soltanto è affiancato al De monarchia, che lo precede, ma l’incipit e l’explicit suggeriscono che le due opere erano state trascritte e lette come un unico testo, intitolato Rectorica Dantis.
Tutta la terminologia attraverso cui Dante caratterizza il volgare illustre è, infatti, squisitamente politica. Ciò è evidente nella caratterizzazione del siciliano, che deve il suo primato alla nobiltà e alla rettitudine di Federico e di suo figlio Manfredi («per questa ragione, i nobili di cuore e coloro che erano dotati di grazia hanno desiderato inerire alla maestà di così grandi principi, in modo che tutto ciò che, in quel tempo, gli animi eccellenti producevano, usciva dalla reggia di questi sovrani. E poiché la Sicilia era un soglio regale, è successo che tutto ciò che i nostri predecessori hanno composto in volgare, si chiama siciliano») (DVE, I, XII, 4). Ma politici sono innanzitutto gli aggettivi attraverso i quali viene definita la decentiorem et illustrem loquelam (DVE, I, XI, 1), la pantera profumata, che in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla, di cui Dante si è messo in caccia:

1. ILLUSTRE – hoc modo viros appellamus illustres, vel quia potestate illuminati alios et iustitia et caritate illuminant, vel quia excellenter magistrati excellenter magistrant, ut Seneca et Numa Pompilius. Et vulgare de quo loquimur et sublimatum est magistratu et potestate et suos honore sublimat et gloria. […] Quod autem exaltatum sit potestate, videtur. Et quid maioris potestatis est quam quod humana corda versare potest ita ut nolentem volentem et volentem nolentem faciat […]? (DVE, I, XVII, 2-4).
Come nota opportunamente Corrado Bologna: «Il concetto-chiave di illustris fornisce a questo umanesimo politico dantesco un radicamento metafisico ed etico. Gli illustres heroes sono per Dante il modello antropologico e simbolico del vulgare illustre di cui parla nei capitoli XVII e XVIII dello stesso I libro. Lo stesso volgare illustre è un “eroe” che, sublimatus magistratu et postestate, et suos honore sublimat et gloria: “innalzato dal magistero e dal potere, innalza i suoi con l’onore e la gloria” (DVE, I, 17, 4). Mi sembra di straordinaria forza allegorica l’immagine inventata da Dante di una lingua di luce elevata al rango di eroe culturale di una nuova civiltà» (Potere della lingua – Lingua del potere: De vulgari eloquentia, Monarchia e la Napoli angioina, in Significar per verba. Laboratorio dantesco, a cura di D. De Martino, Longo Editore, Ravenna 2018). Il volgare illustre ha immediatamente un risvolto politico.

2. AULICO – Quia vero aulicum nominamus illud causa est quod, si aulam nos Ytali haberemus, palatinum foret. Nam si aula totius regni communis est domus et omnium regni partium gubernatrix augusta […]Et hinc est quod in regiis omnibus conversantes, semper illustri vulgari locuntur; hinc etiam est quod nostrum illustre velut acola peregrinatur et in humilibus ospitatur asilis, cum aula vacamus (DVE, I, XVIII).
Si affaccia qui l’idea, che sarà ripresa anche in seguito, che il volgare – come la situazione politica in cui dimora – sia definito da una mancanza: l’assenza di un’aula, di una reggia, fa sì che il volgare illustre sia simile a uno straniero (acola) o a un peregrino in patria. In ogni caso, l’analogia politica/lingua è fermamente mantenuta.

3. CURIALE – Est etiam merito curiale dicendum, quia curialitas nil aliud est quam librata regula eorum que peragenda sunt […]Unde cum istud in excellentissima Ytalorum curia sit libratum, dici curiale meretur.
L’analogia politica/lingua è svolta ulteriormente, legando la lingua, attraverso l’immagine della bilancia, all’esercizio della giustizia («ben ponderata regola delle cose da farsi»).

# Tutto il passo in questione va letto insieme, come suggerisce Bologna, a De monarchia I, 5, 3-10, dove si ritrova la stessa terminologia di un principio unitario che regola e regge: Asserit enim ibi venerabilis eius auctoritas quod, quando aliqua plura ordinantur ad unum, oportet unum eorum regulare seu regere, alia vero regulari seu regi; quod quidem non solum gloriosum nomen autoris facit esse credendum, sed ratio inductiva. […] Si enim consideremus unum hominem, hoc in eo contingere videbimus, quia, cum omnes vires eius ordinentur ad felicitatem, vis ipsa intellectualis est regulatrix et rectrix omnium aliarum: aliter ad felicitatem pervenire non potest. […]Si consideremus unam domum, cuius finis est domesticos ad bene vivere preparare, unum oportet esse qui regulet et regat, quem dicunt patremfamilias, vel eius locum tenentem, iuxta dicentem Phylosophum: «Omnis domus regitur a senissimo»; et huius, ut ait Homerus, est regulare omnes et leges imponere aliis. Propter quod proverbialiter dicitur illa maledictio: «Parem habeas in domo».
Si consideremus vicum unum, cuius finis est commoda tam personarum quam rerum auxiliatio, unum oportet esse aliorum regulatorem, vel datum ab alio vel ex ipsis preheminentem consentientibus aliis; aliter ad illam mutuam sufficientiam non solum non pertingitur, sed aliquando, pluribus preheminere volentibus, vicinia tota destruitur.
Si vero unam civitatem, cuius finis est bene sufficienterque vivere, unum oportet esse regimen, et hoc non solum in recta politia, sed etiam in obliqua; quod si aliter fiat, non solum finis vite civilis amictitur, sed etiam civitas desinit esse quod erat.
Si denique unum regnum particulare, cuius finis est is qui civitatis cum maiori fiducia sue tranquillitatis, oportet esse regem unum qui regat atque gubernet; aliter non modo existentes in regno finem non assecuntur, sed etiam regnum in interitum labitur, iuxta illud infallibilis Veritatis: «Omne regnum in se divisum desolabitur».
Si ergo sic se habet in hiis et in singulis que ad unum aliquod ordinantur, verum est quod assummitur supra; nunc constat quod totum humanum genus ordinatur ad unum, ut iam preostensum fuit: ergo unum oportet esse regulans sive regens, et hoc «Monarcha» sive «Imperator» dici debet.
Et sic patet quod ad bene esse mundi necesse est Monarchiam esse sive Imperium.


Decisive sono le considerazioni che Dante aggiunge subito dopo aver definito la curialitas: «dire “eccellentissima curia” sembra uno scherzo, dal momento che manchiamo di una curia (cum curia careamus). Ma se è vero che una curia, come quella del re dei Germani, in Italia non c’è, membra tamen eius non desunt. E come le membra di quella si uniscono in un unico principe, così le membra di questa gratioso lumine rationis unita sunt. Sarebbe perciò falso dire che gli Itali mancano di una curia, perché non hanno un principe: abbiamo una curia, anche se essa è corporalmente dispersa (curiam habemus, licet corpolariter sit dispersa)» (I, XVIII).
Qui Dante elabora una dottrina che vale tanto per la curia politica che per quella linguistica.
Possono sussistere le membra, le parti di una comunità politica e linguistica, anche se manca il sovrano – la lingua – che le unisce in un unico corpo. In un certo senso, qui la curia corpolariter dispersa è opposta al corpo sovrano del Leviatano, che in Hobbes è costituito dall’unione dei corpi dei sudditi. Si può avere – certamente nella lingua, ma verisimilmente anche in politica – una curia senza un sovrano. In questo Antileviatano, il principio unificante – sarà bene non dimenticarlo anche nella lettura del De monarchia – può essere idealmente presente anche in mancanza di una sua incarnazione istituzionale, agendo in qualche modo attraverso le sue membra disperse (licet corpolariter sit dispersa). Il volgare è aulico in assenza di un’aula e curiale in assenza di una curia. Qui la metafora della pantera profumata, che è in ogni città e non appartiene a nessuna, acquista tutto il suo senso. Il volgare illustre, pur non incarnandosi in una curia particolare, è misura di tutti i volgari, senza coincidere con alcuno di essi (quod omnis latie civitatis est et nullius esse videtur, et quo municipalia vulgaria omnia Latinorum mensurantur et ponderantur et comparantur) (DVE, I, XVI). Il volgare illustre ha la funzione (eminentemente politica) di «misurare, pesare e comparare» i volgari municipali.
Sarà bene fissare le tesi fondamentali della originalissima dottrina politico-linguistica che Dante svolge nel De vulgari. Il volgare illustre – in quanto corrisponde all’assenza di aula in Italia – non è, contrariamente alle interpretazioni correnti, un’altra lingua, un volgare esistente come tale accanto agli altri, ma migliore di essi. È una lingua corporaliter dispersa nei vari volgari e unificata non nella forma di una lingua sovrana grammaticalmente identificabile, ma gratioso lumine rationis, cioè come l’esigenza poetica e politica di un libero criterio razionale che «misura, pondera e compara» tutti i volgari esistenti (gratiosus in Dante significa “libero”, cfr. Mon. I, XIII: illud est liberum quod suimet et non alterius gratia est) (“grazioso” ha qui il significato teologico di una coincidenza fra la grazia e la libera natura umana, che Dante, contro la teologia scolastica, definisce nella Commedia. L’«animal grazioso e benigno» sottolinea che l’uomo – contrariamente all’opinione dei teologi – è dotato di una grazia sufficiente alla sua felicità terrena e alla sua salvezza).

Anche in I, XVI, dove Dante dice che cercherà la pantera rationabilius, in modo più razionale, il volgare è certo qualcosa di reale (nelle parole di Mengaldo: «qualcosa che è, metafisicamente»), ma non, come afferma poi erroneamente lo stesso Mengaldo, un «dato» («è un dato, non il risultato di un processo»). Se fosse un dato, non dovrebbe essere così arduamente ricercato. Esso è, piuttosto, qualcosa che non è mai dato, ma deve essere ogni volta trovato in un movimento di divergenza rispetto ai volgari municipali. È reale, cioè, come un’esigenza che anima e muove i volgari municipali, e non come un altro volgare identificabile in una città.

Sarà necessario, allora, soffermarsi sul termine attraverso il quale Dante caratterizza più volte la specificità del volgare illustre: «divergere (divertere)». Anche quando sembra coincidere coi volgari municipali, come avviene col siciliano o col bolognese, esso implica in realtà sempre una “divergenza” dal proprio volgare: a proprio divertisse, detto dei siciliani e degli apuli (I, XII, 9); a proprio divertissent, dei bolognesi (I, XV, 6).
Questa “divergenza dal proprio” sembra essere il tratto caratteristico del volgare illustre: divertere a materno et ad curialem vulgarem intendere (detto di Aldobrandino Padovano in I, XIV, 7), si tratta dunque di una “diversione da” che è anche una “tensione verso”; o anche di Guinizelli rispetto al volgare bolognese: a mediastinis Bononiae sunt diversa (I, XV, 6). Di Guittone: nunquam se ad curiale direxit (I, XIII, 1). Dei romagnoli: horum aliquos a proprio poetando divertisse audivimus (I, XIV, 3). Di Sordello: non solum in poetando […]patrium vulgare deseruit (I, XV, 3).

# Notare il significato forte di «diversitade» in Cv. II, VII : «la qualitade di queste diversitadi secondo la loro radice», «diversitade che mi combattea» (II, VIII) – vale «divisione che è ne la mia anima», «frequenti pensieri che si danno battaglia nell’animo». La diversitade vale qui lotta interiore. La divergenza, come la diversitade, è più dell’ordine di una divisione interiore che di una differenza sostanziale (cfr. Cv. III, II, 4: «Ciascuna forma sustanziale procede da la sua prima cagione, la quale è Iddio […] e non ricevono diversitade per quella, che è semplicissima, ma per le secondarie cagioni e per la materia in che discende»). Vita Nova, XIII, 10: «ne la prima [parte] dico […] che tutti li miei pensieri sono d’Amore; ne la seconda dico che sono diversi, e narro la loro diversitade», dove il significato non è quello di “varietà”, come suggerisce l’Enciclopedia dantesca, ma, come risulta dal sonetto, di una divergenza che oppone fra loro i pensieri quasi in una battaglia, come del resto è detto subito dopo: «Appresso la battaglia de li diversi pensieri» (XIV, 1).

Divertere ha dunque in Dante un significato forte: è un’opposizione decisa e consapevole, che può spingersi fino a un conflitto. È stata giustamente notata (Mengaldo) l’opposizione termine a termine fra volgare illustre e volgari municipali in I, XVII, 3: de tot rudibus Latinorum vocabulis, de tot perplexis constructionibus, de tot defectivis prolationibus, de tot rusticanis accentibus / tam egregium, tam extricatum, tam perfectum et tam urbanum videamus electum. La divergenza va fino all’opposizione.
La lingua è cioè percorsa e animata da una tensione, che la fa “divergere” dal suo proprio in una direzione che Dante definisce con gli aggettivi «illustre», «cardinale», «aulico» e «curiale». Questa tensione è poetica e, insieme, politica. La divergenza si attua attraverso un’attività di eliminazione e purificazione: i volgari sono paragonati a una selva (perplexos frutices atque sentes extirpamus de silva, IXI,1; ytalia silva, I, XVIII, 1) e il volgare illustre a un giardiniere (agricola) che cotidie extirpat sentosos frutices e plantas inserit vel plantaria plantat (ciò conferma che il volgare illustre non è un dato, ma un’attività). Ciò non significa che il volgare illustre sia soltanto una purificazione dei volgari municipali: la divergenza dal proprio sfocia, in ultima analisi, in un abbandono (Sordello poetando patrium vulgare deseruit) che non raggiunge, però, nessun nominabile luogo.
Il campo della lingua è, cioè, il luogo di una divergenza, di un conflitto politico, attraverso il quale i volgari sono lavorati e progressivamente abbandonati in direzione di qualcos’altro che non ha una consistenza propria, è, in questo senso, sempre improprio e straniero (nostrum illustre velut acola peregrinatur, I, XVIII, 3).

Se il volgare illustre non può essere concepito, secondo il modello elaborato da Trissino «come media e conguaglio dell’uso più elevato di varie regioni e centri culturali» (Mengaldo), resta tuttavia che i simplicissima signa che lo definiscono, senza appartenere a nessuna città, sono comuni a tutte (nullis civitatis Ytalie propria sunt et in omnibus communia sunt, I, XVI, 4). La comunità che è qui in questione non riposa, però, su una sostanza comune, ma sulla comune divergenza dal proprio in direzione di una “curia” – cioè di una lingua – assente.
Il volgare illustre è ciò in direzione del quale tutti i volgari divergono, restando in sé difettivo (almeno finché non vi saranno in Italia una curia e un’aula). Come in Mallarmé, «les langues imparfaites en cela que plusieurs, manque la suprême».

Sarà allora possibile se non necessario collegare l’idea del volgare illustre a quella certa forma locutionis a Deo cum anima prima concreata evocata in I, VI, 4, «che sarebbe usata da ogni lingua dei parlanti, se per colpa della presunzione umana non fosse stata dispersa» (I, IX): Omnis nostra loquela – praeter illam homini primi concreata a Deo – sit a nostro beneplacito reparata post confusionem illam quae nihil aliud fuit quam prioris oblivio.
Se il volgare illustre non è certamente un recupero della forma locutionis adamitica, tuttavia esso corrisponde in qualche modo ad essa, che non è semplicemente l’ebraico, ma, come suggerito da Maria Corti, una sorta di matrice linguistica universale da cui tutte le altre lingue deriverebbero. (L’espressione forma locutionis, che Dante usa solo in questo passo, deriverebbe, secondo Idel, da Abulafia, col cui pensiero Dante potrebbe essere entrato in contatto a Verona, e che distingueva un linguaggio in potenza, naturale, da un linguaggio in atto, convenzionale). Il volgare illustre non è una lingua, ma, come quella di Adamo, una certa forma locutionis, o, più precisamente, una messa in tensione e una divergenza dei volgari in direzione di quella forma locutionis.
Che Dante vedesse una corrispondenza fra il volgare illustre e la forma locutionis adamitica lo suggerisce la ripresa puntuale in I, XVII, 3 (rudibus vocabulis, perplexis constructionibus, defectitivis prolationibus: rerum vocabula, vocabulorum constructionem, constructionum prolationem) degli elementi che la caratterizzano in I, VI, 4 (dico autem formam et quantum ad rerum vocabula et quantum ad vocabulorum constructionem et quantum ad construcionis prolationem). Il volgare illustre si definisce, cioè, agendo sui tre aspetti strutturali della lingua per restituirli alla purezza della forma locutionis originaria.

# Abulafia: «La forma che comprende tutte le scritture è la forma di lingua (tzurat ha-dibbur) che è naturale e aderisce alla bocca ed è anche iscritta nel cuore al momento della formazione. La prova di ciò è che se questa forma di lingua non fosse la forma dell’uomo, egli non sarebbe capace di parlare e l’essenza della sua esistenza non sarebbe il linguaggio. E voi sapete che la quintessenza dell’uomo è di essere un vivente e parlante; la forma di vita è perfezionata dai sensi e la forma di lingua è perfezionata dall’intelletto». Altrove Abulafia distingue un linguaggio in potenza, che è naturale e non convenzionale, e un linguaggio in atto, che è convenzionale (Moshe Idel, The Infant Experiment: the Search for the First Language, in The Language of Adam, Wolfenbütteler Forschungen, Band 84, Wiesbaden 1999, p. 66).

Vi sono dunque in Dante due bilinguismi o, meglio, una duplice tensione che percorre il campo della lingua:

1) Quella fra volgare e lingua grammatica, tra la prima locutio sine omni regula, naturale e mutevole e la locutio secundaria, artificiale e fissa, che è stata trovata per conferire stabilità alla lingua in tempi e luoghi diversi.

2) Quella fra i volgari municipali e il volgare illustre. Non si tratta di due lingue, ma di una tensione e una divergenza che disloca i volgari municipali al di là di loro stessi verso una unità potenziale che è presente nel suo mancare, come una curia di cui vi siano le membra, ma il principe manchi. (Al contrario che nel Leviatano, il cui corpo è formato da quelli dei sudditi, qui vi sono le membra, ma non il corpo sovrano).

Queste due tensioni, pur chiaramente distinte, non cessano di incrociarsi e sovrapporsi nella pratica linguistica. La lingua, così come noi ancora oggi la conosciamo e pratichiamo, implica sempre questo duplice “bilinguismo”. Alla prima tensione sembra oggi corrispondere in Italia quella fra dialetto e lingua, alla seconda quella fra l’italiano d’uso corrente e la lingua della poesia e del pensiero. Una lingua è viva se contiene entrambe queste tensioni.
In ogni caso il volgare illustre non può essere in alcun modo per Dante una certa lingua grammaticale, l’italiano, come un’erronea interpretazione ha ostinatamente suggerito.
Vi è, qui, più che un’analogia con l’intelletto possibile, che definisce la potenza propria del genere umano, che non può essere attuata «né da un solo uomo, né da una sola casa, né da un solo villaggio, né da una sola città, né da alcun regno particolare» (Mon. I, III, 4), ma esige una moltitudine (necesse est multitudinem esse in humano genere, per quam quidem tota potentia hec actuetur, ibid. I, III, 8).
La potenza della lingua può essere attuata solo da una moltitudine di lingue e volgari e mai da una sola lingua. Il volgare illustre è un’istanza o un’esigenza immanente di volta in volta nei singoli volgari municipali, che li spinge a divergere da essi verso una forma locutionis mai effettivamente presente come tale.

# Che l’intelletto possibile della tradizione aristotelica e averroista fosse concepito come una lingua è un’idea che si trova espressa in Abulafia e in altri filosofi medievali. «L’intelletto umano», scrive Abulafia, «è ciò che muove tutte le lingue, pur essendo immobile, sia nella sua essenza che per accidente. L’intelletto umano opera nella specie umana in actu dalla sua parte, ma in potentia dalla parte degli uomini. E l’intelletto modificò le lingue, dopo che esse erano state una sola lingua, compresa da tutti i parlanti, e anche oggi esse sono una sola lingua, che non è, però, compresa da tutti i parlanti» (Idel, cit., p. 67).

## Nel De vulgari (II, IV, 6), Dante sembra limitare l’uso del volgare illustre allo stile tragico: Si tragice canenda videntur, tunc adsumendum est vulgare illustre et per consequens cantionem oportet ligare. Si vero comice, tunc quandoque mediocrem, quandoque humile vulgare sumatur.
E rimanda a più tardi la trattazione di questa discretio. Se su questa discretio (per Dante così importante che egli ricorda che la distinzione degli stili è opus et labor ineludibile del poeta che si accinge a cantare) si può fondare il carattere misto – insieme alto, mediocre e umile – dello stile della Commedia, resta tuttavia qualche contraddizione con il motivo centrale del trattato, che è la ricerca – la caccia – del volgare illustre nella selva dei volgari municipali.