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Appunti per una preistoria del bilinguismo
di Nicoletta Di Vita

1. Nell’antica raccolta del Ṛgveda (le «strofe della saggezza», 1028 poemi composti in India tra il XIV e il X secolo a.C.), l’attività poetica non era riservata ai soli uomini, ma apparteneva ugualmente agli dèi. All’origine dell’idea di divino non vi è, infatti, il privilegio dell’immortalità, ma quello della parola; gli dèi sono «gli esperti della parola», ed essi, insieme ai primi poeti-veggenti (ṛṣi), «rivelano la parola sacra, che è anche la lingua degli dèi» (Geldner). Ma che cosa dice un dio e quale lingua parla?
Accanto all’istituto della formula rituale, che caratterizza a prima vista il Ṛgveda, gli studiosi hanno riconosciuto che è «soltanto nel contesto dell’inno (sūktā)» che la parola del dio si manifesta nella lingua dell’uomo. Ciò accade però, anzitutto, come «discorso sulla parola» (D’Intino, 429). Gli antichi inni agli dèi sono il luogo in cui, per la prima volta, ha sede e si sedimenta la nascente riflessione sulla lingua. Come è stato osservato, ancora «la più antica poesia greca che conosciamo includeva», nelle sue parti «inniche», «una specie di “elemento filologico”» (Durante, 153): non soltanto una manifestazione della parola nella parola, ma la traccia di ciò nutre e informa la stessa lingua umana, in cui i poeti credevano di riconoscere qualcosa di “divino”.
Quando, nella Grecia dell’VIII secolo a. C., l’ipotesi di una «lingua degli dèi» (diálektos tôn theôn) verrà a imporsi definitivamente come forma separata e distinta dalla «lingua dei mortali» (Hom. Il. XIV 290-91 etc.), ciò sarà possibile solo mediante un atto di interruzione e di separazione di quella originaria coappartenenza.

2. È uno dei luoghi meno frequentati dalla tradizione il fatto che, quando nelle civiltà antiche il dio prende la parola, ciò accade principalmente in due modi: come parola oracolare, nell’istituto della mantica di cui Eraclito avrebbe detto che «con bocca delirante» «supera i millenni» (fr. B 92); e – ciò che raramente è stato evidenziato dagli interpreti – nella forma poetica degli inni. Nel mondo greco e latino non è raro incontrare la singolare circostanza di un dio che prende la parola per levare in prima persona un inno in lode di se stesso. In Pindaro, nel Ditirambo a Eracle (fr. 70 B), gli dèi mostrano essi stessi come occorre celebrarli; in Aristide, il dio pronuncia da sé le sue invocazioni (Disc. Sacr. II), e in Plotino un lungo inno è levato dalla bocca di Apollo: «inizio a cantare un inno immortale […] in un unico canto che sia di tutti il più bello: / io, Febo, dalla folta chioma, sto in mezzo a voi» (Porfirio, Vita Plotini 22, 14); e ancora Pan pronuncia: «io, che sono nato mortale, mi rivolgo a Pan…» (Euseb. Praep. Ev. 5, 13). L’esempio più celebre di inno pronunciato in prima persona (ciò che gli studiosi avrebbero chiamato lo Ich-Stil) è contenuto nel libro XI delle Metamorfosi di Apuleio: Iside inneggia a se stessa, come accadeva già nelle fonti egizie («Iside io sono, sorella di Osiride, la signora di tutta la terra […] La più remota figlia di Kronos…»).
Ma l’uso di inni composti dal dio risale indietro fino al Ṛgveda. Nell’inno X, 125 (ripreso in Atharvaveda IV, 30), è nientemeno che la Parola, Vāc, a comporre un inno per se stessa. Il contenuto è stato a ragione definito un eccezionale «compendio di metafisica» (Dumézil, 13): Vāc «porta gli dèi» – svayám, ella dice, «proprio io e nessun altro». La parola vi è definita in modo compiuto; essa, vi è detto, è ciò che «nutre» e che «piace» alla divinità – quel nutrimento che Marcel Mauss, in uno studio del 1911, avrebbe presentato come un vero oggetto di “culto”: così come gli dèi, nei Brāhmaṇa, sono «nutrimento» per gli uomini, così lo sono, per essi, «i canti e gli inni» (Mauss, 594).

3. In un celebre passo del dialogo platonico Fedro, quel privilegio che la tradizione aveva assegnato al poeta diviene inaspettatamente l’intendimento del filosofo. È il filosofo che, «come una bestia affamata», si nutre ora di logoi (εἱσία τῶν λόγων, Phaedr. 227 b 6), ed è costui che, con un’espressione in cui non può non risuonare l’antica prescrizione di Vāc, ha cura di «dire parole che piacciano agli dèi» (θεοῖς κεχαρισμένα λέγειν, Phaedr. 273 e 7). Nella ricerca di questa parola-nutrimento, Platone – in un atto che sembra rifondare ogni sapere sul linguaggio – annuncerà nel dialogo Cratilo per quali sentieri della lingua occorre inoltrarsi. Egli ritorna, sorprendentemente, al modello degli “inni”. In essi ritrova il modo in cui occorre dire i «nomi», quei nomi con i quali «gli dèi chiamano se stessi»: «occorre infatti, caro Ermogene – osserva Socrate in un punto decisivo del dialogo –, nominarli come negli inni è uso fare: con quei nomi quali che siano e donde che siano (οἵτινες τε καὶ ὁπόθεν), con cui a loro piaccia essere nominati (χαίρουσιν ὀνομαζόμενοι), e con questi chiamarli anche noi stessi […] ché riguardo agli dèi noi non sappiamo nulla, né riguardo a loro stessi, né riguardo ai nomi con i quali chiamano se stessi (ἑαυτοὺς καλοῦσιν). È chiaro infatti che essi si chiamano con i nomi veri (τἀληθῆ καλοῦσι)» (Crat. 400 d 6 ss.).

4. Nell’antica India del XIV secolo a.C., l’atto di nominare, di chiamare con un nome (nğāman) è legato, nell’immagine mitica, al padā, il «passo», la «parola nascosta di cui i poeti seguono le tracce – la “parola-traccia”, che li precede» (D’Intino, 430-31). Gli studiosi hanno parlato di una vera e propria «quête dei padā nascosti», nella quale consisterebbe il vero ufficio dei poeti. Nel libro decimo della raccolta, all’interno dell’inno 71, noto come jñanasūkta («inno della conoscenza»), è detto che il «cominciamento della parola» si colloca là ove «vennero dati i primi nomi alle cose». Ciò è tuttavia presentato dal poeta non come imposizione del nome, ma come sua riscoperta: «qualcosa di nascosto in loro [= nei nomi] venne rivelato per effetto di amore». È allora che «gli amici riconobbero l’amicizia» (RV X 71).
Sulle tracce di questa parola da ritrovare, il cantore configura una rete semantica di nomi, un «tessuto di amicizie» che attraversa le parole che compongono il linguaggio: è nella stessa parola, nel legarsi in amicizia di un nome con l’altro, e non nel confronto del nome con la cosa detta (esterna al linguaggio), che il poeta può ritrovare la «vera» parola, che egli identifica con un parlare divino. Padā, che significa propriamente «piede» (da cui la designazione della divisione metrica), è usato in Ṛgveda come «l’impronta del piede», il «passo» o la «traccia» contenuta nella parola, forse allo stesso modo in cui anche i Greci chiamavano i loro inni «proemi» (prooímion, da oímē/oîmos, «cammino, traccia»). Ciò che fa il poeta è mettersi al seguito della “traccia nascosta”, «detto altrimenti, del “nome segreto”» (Renou, 9-10), contenuto e testimoniato dal nome che il parlante pronuncia nella sua stessa lingua (nelle parole comuni del mortale, di «chi vede, respira e ode», RV X, 125).

5. È possibile, allora, che la nascita dell’idea di una «lingua degli dèi» separata da quella «degli uomini» coincida con un oblio di questo sapere sulla lingua. Se in Omero – per il quale «ciò che i numi chiamano Xanthos, gli uomini lo chiamano Skamandros» (Il. XX, 74) e «quell’uccello canoro che gli dèi chiamano Chalkis, ha presso gli uomini il nome di Kúmindis» (Il. XIV 290-91) – la parola umana ha perduto ogni sua forza, è divenuta parola ordinaria e sbiadita («la folla io non dirò, non chiamerò per nome, nemmeno s’io dieci lingue e dieci bocche avessi, voce instancabile, petto di bronzo avessi…», Il. II, 488ss.), ciò è, forse, perché egli ha abbandonato la strada degli inni, la ricerca, nei nomi, della loro verità. In Omero, è stato scritto, la «narrazione», fondamento della letteratura occidentale, mostra «indifferenza al richiamo dei valori fonici», indifferenza cioè alla traccia che le parole stesse custodiscono, fondando per la prima volta il «discorso che articola il pensiero» (Durante, 154).
Non vi è allora ragione di fraintendere le etimologie che, rare e deboli in Omero, affollano notoriamente il Cratilo di Platone, alla ricerca del nome che questi dice «corretto” (orthos): esse non sono né una stravaganza, né un curioso esercizio, né una prova di «naturalità» (physei) o «artificiosità» (thesei) della lingua – la distinzione ha la sua origine nei Sofisti, e per Socrate essa non è che un pretesto. La ricerca, nella lingua, della sua verità o della sua correttezza non può coincidere neppure con l’accesso a una dimensione pretesa altra, o con un’irraggiungibile parola da pronunciare.
Come nell’inno vedico detto «del giocatore» (X, 34) il poeta si metteva in cammino verso la riappropriazione di una parola già propria, e tuttavia «sempre ancora da ritrovare» (D’Intino, 432), così il filosofo sembra mettersi alla ricerca, all’interno del nome (come nell’antico motivo della quête dei pāda), non del suo nesso con la cosa esterna, né di un dire altro e più vero, ma del suo stesso «mito originario», della sua propria, connaturata forza «divina». Nell’«amicizia» che unisce una parola all’altra, da cui quella deriva, è contenuta l’unica possibilità, per il poeta e per il filosofo, di risalire alla sua natura originariamente divina: al suo continuo autorigenerarsi, al suo «nutrirsi», al ritrovarsi in ogni istante a nuova vita. Con il lavoro etimologico che Socrate fa sulla lingua, il nome cioè non è più strumento del linguaggio, elemento operativo sul piano del discorso, ma parla esso stesso, mostra da sé tutto il “senso” che lo informa. Con le parole, acute, di Günter Bader, «ogni nome può, attraverso l’etimologia, rivelare qualcosa di divino come il proprio mito originario» (Bader, 311).

6. “Divina”, pertanto, non è, per le civiltà antiche, una lingua che se ne sta accanto o al di sopra di quella dei mortali; e “divini”, non sono quei nomi che si affiancano agli altri nomi come tante specie di un unico genere; essi custodiscono, piuttosto, il segreto di ciò che rende nome ogni nome, lingua ogni lingua – ciò che, contro il destino di una lingua morta, la recupera in ogni istante a nuova vita. Nell’intuizione di Bader, il nome divino, di cui Platone cerca la «verità» sul modello degli inni (Crat. 400) – nel modo, cioè, in cui gli dèi si espressero la prima volta – custodisce la «Namenhaftigkeit aller Namen» (307), l’esser-nome di tutti i nomi, e l’antico istituto della «lingua degli dèi» nient’altro è che «Sprache in der Sprache», lingua nella lingua.
Usener, nel suo testo del 1898 (Götternamen), aveva mostrato come, nel mondo antico, tutti i nomi sono già sempre stati “divini”, giacché ogni cosa che all’uomo appaia “divina” si dà sempre anzitutto nella forma del suo nome: «non l’infinito, ma qualcosa di infinito, di divino, si presenta di fronte all’uomo e viene così colto dallo spirito, e plasmato nella lingua» (Usener, 276).
Se dal mondo vedico la poesia ci è consegnata come il luogo di una «parola a venire», e tuttavia «capace di accogliere i suoi molteplici cominciamenti» (D’Intino, 431), così ancora nella tradizione greca e forse, in risonanza con quella, nella nostra, il filosofo ha riconosciuto nella lingua degli uomini ciò che gli Antichi chiamavano una «lingua degli dèi», che quella costantemente “nutre” e abita come il suo momento mitico.
Ed è solo in questa dialettica ininterrotta tra un parlare integralmente umano e il suo momento divino – questa irrisolta diglossia della lingua – che occorre comprendere non soltanto l’istituto antico di una lingua degli dèi, ma ogni preoccupazione filosofica che, a partire da Platone, è stata incessantemente rivolta ad esso.

7. Molti secoli più tardi, Giambattista Vico avrebbe distinto nel linguaggio umano una vera narratio o un parlar vero: di esso, scriveva Vico, «Platone disse essersi parlato una volta sola nel Mondo». Ciò che fanno i poeti, e con essi il filosofo che abbia appreso la lezione del Cratilo, non è tentare di parlare quella stessa lingua, la lingua detta da Omero “divina” e che per Vico è «lingua santa, ritruovata da Adamo, cui Iddio concedette la Divina Onomathesia». Veramente poetico è, piuttosto, il gesto di scavare all’interno della propria lingua per scorgere, in quella, il parlar vero che la abita. Ed è in questo stare in tensione tra una parola supposta originaria e vera, e una parola necessariamente umana – senza mai coincidere compiutamente né con l’una né con l’altra, ma sempre ogni volta movendosi nello spazio tra di esse interposto – che poeta e filosofo si riconoscono in un comune gesto di linguaggio. Così forse già nell’idea di un «volgare illustre» di Dante la lingua della poesia non si dava come terzo tra due lingue (la comune volgaris locutio, da una parte, e la lingua «che i Romani chiamano grammatica», dall’altra), ma essa coincideva piuttosto con l’incontro dell’una con l’altra e con il riconoscersi vicendevole in questa convivenza.
Quando, allora, al centro delle preoccupazioni di Platone verranno posti per la prima volta i nomi degli dèi, ed essi faranno da segnacolo per tutti i nomi, ciò avverrà nel senso di questa preziosa e ineludibile idea di una «lingua» che giace, nutrendola e vivificandola, nella stessa lingua. L’etimologia, che porta il parlante là «dove nessuna storia scritta può condurci» (Grimm, 104), che varca la soglia della storia verso una «preistoria» della lingua, è così il modo in cui il tempo mitico fa il suo accesso nel tempo storico, la lingua degli dèi nell’opaca lingua degli uomini. E questo inestinguibile bilinguismo – remoto come la prima poesia che lo rivela, e che è insieme, in quanto inno, parola umana e parola divina – è, forse, l’origine dimenticata di quell’inesauribile tensione che attraversa in ogni istante la vita della lingua.


Bibliografia

Bader Günter, Gott nennen: von Götternamen zu göttlichen Namen, in «Zeitschrift für Theologie und Kirche», n. 86, Tübingen 1989.
D’Intino Silvia, La parole révélée et l’expérience poétique. Mythe et théorie de la parole dans les hymnes du Ṛgveda, in «EPHE, Section des sciences religieuses. Annuaire», t. 112, Paris 2003-4.
Dumézil Georges, Apollon sonore et autres essais, Gallimard, Paris 1982.
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Grimm Jacob, Über Etymologie und Sprachvergleichung, in Reden in der Akademie (1864), Akademie Verlag, Berlin 1984.
Mauss Marcel, Anna-Viraj, in Œuvres, II, Les Éditions de Minuit, Paris 1974.
Renou Louis, Études védiques et pāṇinéennes, I, Éditions de Boccard, Paris 1955.
Usener Hermann, Götternamen. Versuch einer Lehre von der religiösen Begriffsbildung, G. Schulte-Bumke Verlag, Frankfurt 1948.